“MORTE TRA LE STELLE”

una raccolta di racconti noir dedicata al lato oscuro dei Segni dello Zodiaco

LEONE

di Mary Grace Ovedi

Il vero nome di Len, Lenny, Leo, come confidenzialmente lo chiamavano gli amici, era Leonardo.
Un nome importante, degno di rispetto e considerazione, perché ovviamente era impossibile non associarlo al grande genio autore della Gioconda.
Un nome di cui Leo era molto orgoglioso e che, fin da bambino, lo aveva fatto sentire più importante degli altri. Più importante dei semplici amici di nome Antonio, Francesco, Fabio …
Leonardo era sicuramente più prestigioso e più carismatico: era già una garanzia di superiorità.
Non che Leo ne avesse alcun bisogno; lui sarebbe stato tale e quale anche se si fosse chiamato Tizio o Caio.
Era la forza e il carisma interiore che possedeva, la sua innata sicurezza, la sua padronanza di sé, la sua maturità, che lo mettevano al di sopra degli altri, che rendevano la sua persona piacevole e catalizzante, piena di calore e di generosità. Solare, leale, generoso, coraggioso, pronto a rendersi utile e battersi per i più deboli. Pieno di gioia di vivere, di volontà, di forza e di energia, oltreché fisica anche psichica, perché era privo di complessi, come veramente pochi lo sono a questo mondo. Tutto ciò grazie soprattutto alla sua grande sicurezza e alla conseguente mancanza di frustrazioni e insuccessi.
Le cose erano sempre semplici e risolvibili, perché lui aveva forza di carattere e nulla a questo mondo poteva intimorirlo o spaventarlo.
In tutta la sua giovane vita non aveva mai fatto alcuno sforzo rilevante per inserirsi in un qualsiasi contesto, per proporsi al prossimo. Il suo posto era sempre “al centro”
o “in alto”. Fin da piccolo era automatico e fuori di dubbio che il capo fosse lui, in qualsiasi gioco, in qualsiasi situazione, in qualsiasi gruppo: il potere e il comando sembravano essere le sue caratteristiche più naturali ed innate. Gli venivano spontanee, non si era mai sforzato per imporle; erano gli altri che immancabilmente le riconoscevano in lui e le accettavano con entusiasmo.
Perché lui, innegabilmente, ci sapeva fare. Doveva sì avere tutto sotto controllo, ma poi era largo di vedute, simpatico e paternalistico nei confronti del suo prossimo. Ed era leale e generoso, nei momenti di necessità, verso chi aveva bisogno.
Si dava da fare, dalla sua posizione, dispensando le proprie forze senza limiti e senza chiedere nulla in cambio, se non un plauso di approvazione.
A quello ci teneva. E, bisogna ammetterlo, talvolta eccedeva un tantino in egocentrismo e vanità. Gli piaceva l’attenzione, l’approvazione, la gratificazione da parte del suo prossimo in genere, e le dava per scontate perché era abituato così da sempre e non poteva ormai farne a meno. Ne avrebbe sofferto il suo orgoglio, che era grande almeno quanto la sua sicurezza, e quindi eufemisticamente parlando, smisurato.
Smisurata era anche la sua mania di grandezza, in senso positivo, naturalmente.
I suoi molteplici, encomiabili progetti avrebbero fatto invidia ad un Faraone per la grandiosità e per la spettacolarità con cui li immaginava, ma fortunatamente non sempre riusciva a trovare finanziatori e mezzi per realizzarli, altrimenti il mondo sarebbe stato pieno di piramidi.
C’è da dire però, di contro, che tutto quello che riusciva a realizzare era veramente il “meglio”, non solo nell’apparenza ma anche nella sostanza, giusto appunto come può esserlo una piramide: grandiosa, spettacolare ed eterna.
Ovviamente, in quei primi, caldi giorni di agosto, era lui a capo dell’organizzazione dello spettacolo di beneficenza per la raccolta di fondi a favore dei “Circhi in estinzione”.
L’idea era stata sua e gli era scaturita da un istinto viscerale di solidarietà che aveva provato nei confronti del mondo circense ed in particolare degli animali che ne facevano parte. Animali nati in cattività, e da sempre, nella loro vita, all’uomo referenti per cibo, attenzione, cure ed affetto. Animali che avevano reso felici i bambini e stupito gli adulti, e tra questi anche lui, con le loro meravigliose abilità e che ora sarebbero finiti chissà dove, abbandonati a se stessi dietro le sbarre di qualche vetusto zoo, privati definitivamente di ogni dignità e di ogni affetto.
Erano animali da circo, nati nel circo, addestrati e coccolati nel circo, ammirati ed invidiati, amati sopra ogni altra cosa dai loro compagni umani.
Sì, era senz’altro una battaglia sacrosanta da combattere, e lui avrebbe fatto il possibile per raccogliere i fondi ed aiutare i circhi in difficoltà economiche a sopravvivere e a continuare il loro fantastico spettacolo. Per il bene di tutti e in particolare degli animali stessi e dei bambini, già così penalizzati dal sempre più scarso contatto con la natura, sempre più insidiati e sedotti da giochi artificiali e virtuali.
Ci contava, nell’appoggio e nell’ammirazione dei bambini. Oltretutto era anche convinto che quello fosse per loro un ottimo insegnamento, da seguire, da emulare nella vita: imparare a lottare per difendere le tradizioni più antiche e più belle. E lui si sentiva proprio giusto in quel ruolo di maestro spirituale, legittimato a spezzare il pane della saggezza, come un grande padre.
Nella sua piccola comunità, inutile dirlo, praticamente tutti avevano accettato con entusiasmo la sua idea, e avevano perciò aderito all’iniziativa, coinvolti emotivamente dal suo contagioso entusiasmo e dalla sua trascinante vitalità.
All’unanimità lo avevano ovviamente scelto come capo dell’organizzazione, perché lui sapeva organizzare, gestire, disporre, decidere, dare gli ordini.
Come sempre del resto, la storia si ripeteva: lo avevano scelto, antropologicamente parlando, senza alcun dubbio, come capo branco e, in quanto tale, lo seguivano obbedienti e ordinati. Leo era il capo carismatico di quella piccola comunità. Gli mancava la corona, ma se la sua gente ne avesse avuta una a disposizione l’avrebbe data a lui.
Aveva carta bianca, e nessuno si sarebbe permesso di suggerirgli neanche il più insignificante dei particolari. Si fidavano ciecamente del suo operato.
Il piano di Leo, per il reperimento dei fondi e la sensibilizzazione di quanta più gente possibile al problema circense, era molto semplice, pur essendo grandioso e spettacolare. Consisteva, principalmente, in una grande festa aperta a tutti nel corso della quale gli animali e gli artisti del circo avrebbero eseguito i loro numeri tra il pubblico. Non sotto il tendone, ma in mezzo alle persone, per sensibilizzare ognuno personalmente e da vicino, per consentire di avere un contatto più diretto con gli animali, per poterli addirittura toccare, per guardarli negli occhi e vedere personalmente il loro grande amore, la loro devozione, il loro orgoglio, la loro dignità.
A Leo sembrava un’idea grandiosa.
Avrebbe fatto la gioia di tutti i bambini e anche quella degli adulti, che finalmente avrebbero potuto togliersi la curiosità e la soddisfazione di accarezzare un elefante, o un serpente, o una scimmia. Ne aveva una gran voglia anche lui, a dire la verità, fin da bambino quando aveva dovuto accontentarsi di assistere dalle gradinate, come tutti del resto, alle eleganti evoluzioni e agli incredibili equilibrismi di cani, cavalli, elefanti.
Come puoi, dopo che lo hai guardato negli occhi e dopo che anche lui ti ha guardato negli occhi con intelligenza, lasciare che un cavallo bianco che danza a passi di valzer meglio della “Vedova Allegra” finisca come carne da macello o, nel migliore dei casi, in una fattoria come animale da soma? O che un serpente boa,
vellutato e sinuoso, affascinante e sensuale attorno al collo della sua bella partner, finisca ristretto e solo, in un contenitore di un metro per un metro, in qualche sperduto rettilario? O che un leone, meraviglioso e regale, con la sua folta criniera e la sua possente figura, dolce e affettuoso come un gattone e potente come un re, finisca triste e sconsolato, inutile e infelice dietro le sbarre rugginose di qualche piccolo e sconosciuto zoo, a languire senza più affetto e senza più applausi? Come puoi lasciare che tutto ciò avvenga quando sai che, dopo essere stati privati da generazioni della loro naturale libertà, lì nel circo questi animali hanno finalmente ritrovato una loro dimensione, un loro ruolo, una loro dignità?
Su queste riflessioni, su queste argomentazioni contava Leo. Anche gli altri avrebbero capito il suo punto di vista e di conseguenza sarebbe stato un gioco da ragazzi raccogliere i fondi.
Gli animali stessi avrebbero parlato al cuore della gente, a quello dei bambini in particolare, e i bambini, con il loro entusiasmo, avrebbero contagiato i propri genitori.
La sicurezza di Leo in proposito era assoluta. D’altronde la sua sicurezza era sempre incrollabile, forse anche un tantino presuntuosa ed eccessiva, ma questo era tutto sommato un bene, perché ciò lo portava a non arrendersi mai.
Il suo piano, per quanto interessante, era altrettanto azzardato, per non dire pericoloso.
Gli animali erano sì abituati al pubblico, ma non ad un contatto così diretto: si sarebbero potute verificare delle reazioni impreviste da parte di quelli più sensibili, ad esempio i felini che, per quanto addestrati e sazi, erano comunque potenzialmente pericolosi.
Leo ci aveva vagamente pensato, ma poi aveva trovato una soluzione anche a quello. Per i felini avrebbe evitato il contatto diretto con il pubblico, comunque offrendo uno spettacolo indimenticabile.
Li avrebbe “affrontati” lui, si sarebbe cimentato lui personalmente, aiutato dai consigli di un esperto domatore, e avrebbe sbalordito i suoi concittadini con il suo coraggio, con la sua abilità, con la sua intraprendenza.
Anche questa era una cosa che aveva sempre desiderato, immaginato di fare ed era sicuro di esserne capace, soprattutto perché lui amava gli animali, che a loro volta erano ammaliati dal suo carisma. E poi, inutile ripeterlo, aveva dalla sua la forza, il coraggio, la generosità e l’attitudine al comando: le doti essenziali di un vero domatore.
A dire la verità fu però sconsigliato dall’intraprendere questa iniziativa proprio dal domatore che, pur confermando il perfetto addestramento dei suoi leoni, egualmente ammise che non ci avrebbe messo la mano sul fuoco sulla loro totale obbedienza ad una terza persona, per quanto benevolmente potessero accoglierla.
Ma Leo non aveva paura, non aveva incertezza; si sentiva sicuro e per lui si trattava inoltre di dare una grande prova, non solo di coraggio, ma anche di superiorità.
Non che ce ne fosse bisogno, ma di tanto in tanto gli piaceva far rifulgere un bagliore più intenso dalla corona che virtualmente portava in capo. Così, tanto per far ricordare e per ricordarsi che il “re” era lui.
Forse fu la percezione di questa particolare ma non irrilevante sfumatura che maldisposte Vince, il leone più anziano e possente del circo. Dopotutto aveva anche lui una sua dignità da salvaguardare: era lui il re, da che mondo è mondo!
Quando Leo con tutta la sua sicurezza, la sua padronanza, la sua baldanza, si avvicinò a Vince per poggiare la sua mano sulla fulva criniera – come imponendo sottomissione e obbedienza – Vince, con fare elegante, si spostò di lato evitando il contatto e, aggirando Leo, balzò agilmente su di uno sgabello dietro di lui.
Dall’alto lo guardò negli occhi, proprio come aveva immaginato Leo, e nel suo sguardo intelligente, cosciente ed espressivo Leo colse tutto quello che Vince voleva comunicargli, e cioè: sfida, coraggio, superiorità e riappropriazione.
Della sua corona che, senza sforzo alcuno, si riprese insieme alla testa di Leo in un unico boccone!

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