di Daniela Piesco Direttore Responsabile
Ero lì, tra le mura antiche del Teatro Comunale di Benevento, quando il tempo ha smesso di scorrere. Le note del pianoforte di Claudio Patuto hanno aperto un varco nell’aria, come chiavi d’oro che sbloccavano memorie sepolte. E poi, il violino di Emanuele Procaccini,un grido, un lamento, una carezza,che si intrecciava alle corde dell’anima, trascinandomi in un vortice di nostalgia e bellezza.
Era più di un concerto, più di uno spettacolo. Era un naufragio volontario in cui musica, danza e scultura diventavano un unico respiro. Le ballerine del Centro Arabesque, guidate da Annamaria Di Maio, fluttuavano come ombre del passato, mentre le opere di Salvatore Troiano,ferme eppure vivissime,parevano sussurrare storie di terre lontane. Fabio Cocifoglia, con la sua voce, ha cucito parole tra le pause, trasformando il silenzio in poesia.
Mi sono persa.
Deliberatamente.
Perché “Note di Classe” non è stata una semplice esibizione, ma un rituale collettivo. Domenica Di Sorbo aveva ragione: come un vinile antico, ogni arte conserva una vibrazione che non muore, ma si trasforma, si fa eco. E in quel teatro, il presente e l’eterno si sono toccati, mentre il pubblico respirava, unito, la stessa emozione.
Quando le luci si sono riaccese, ho portato via con me un segreto: la musica non si ascolta, si abita. E stasera, per qualche ora, siamo stati tutti ospiti di un sogno condiviso.”
Un testimone che ha smarrito (e ritrovato) se stesso tra le pieghe del tempo.