Una delle caratteristiche della filosofia tra il diciannovesimo e ventesimo secolo è che lo stimolo al dibattito filosofico ha avuto origine non solo dalle riflessioni o immaginazioni intellettuali dei filosofi di professione, ma anche, se non prevalentemente, dalle scoperte scientifiche che in quel periodo di poderoso sviluppo delle scienze venivano fatte nei diversi campi dei saperi speciali. Certo, la filosofia non ha mai ignorato il sapere scientifico e, almeno fino al seicento, spesso i filosofi erano anche ottimi scienziati, si pensi a Pascal, a Leibniz e allo stesso Cartesio. Tuttavia, il filosofo di allora era solito dare del sapere scientifico della sua epoca una interpretazione che conciliasse tale sapere con le idee metafisiche di fondo del suo sistema filosofico, all’interno del quale esso veniva ricompreso come parte speciale, la quale parte per lo più prendeva il nome di filosofia della natura. L’ultimo filosofo ad operare in questo modo è stato Hegel. Nell’ottocento, invece, le scienze si sono completamente autonomizzate dalla filosofia e, abbandonando la madre da cui tutte sono nate, ciascuna ha seguito la sua strada. Sennonché, per restare ancora nella metafora or ora utilizzata, la madre, pur essendo stata abbandonata, non ha mai smesso di seguire le vicende delle sue figlie diventate adulte, anzi da quelle stesse vicende si è umilmente lasciata interrogare. Pensiamo, ad esempio, alle scoperte che Darwin fa in ambito biologico. La sua teoria poneva alla filosofia due grossissimi problemi. Il primo riguardava la divisione dell’essere del mondo in generi e specie, una divisione che risaliva nientemeno ad Aristotele e da cui derivava la definizione della sostanza di ciascuna cosa, la quale procedeva appunto per genere prossimo e differenza specifica. Tale definizione denotava, una volta per tutte, la sostanza immutabile di qualcosa, sicché era del tutto impensabile che questo qualcosa potesse evolvere e passare nel corso del tempo da una specie all’altra. Ma è proprio a questo “impensabile” che apre la teoria evoluzionistica di Darwin. Il secondo problema riguardava il ruolo che il caso gioca nel processo evoluzionistico. Un ruolo così preponderante lascia qualche spazio all’intervento provvidenziale di Dio nel mondo? E l’uomo, fatto a Sua immagine e perciò immaginato come signoreggiante l’intera natura, al cui servizio tutti gli esseri viventi sono stati creati, lo si può mai concepire discendente di un bruto?
Prendiamo in esame un’altra scoperta fatta in un ambito diverso, quello psicologico. Fino all’idealismo del primo ottocento l’autocoscienza era considerata il luogo privilegiato ed esclusivo di realizzazione della umanità dell’uomo. Nella sua trasparenza si riflettevano le più fondamentali verità e la stessa dignità dello spirito umano. Ebbene, che ne è di essa dopo che Freud ne fa la maschera deformata di inconsci processi, di cui sono protagoniste oscure pulsioni, inconfessabili alla coscienza morale dello stesso soggetto che vi è coinvolto? Freud ha parlato di successive umiliazioni inferte all’uomo, a cominciare da Copernico che lo ha decentrato rispetto all’universo, passando per Darwin che lo ha decentrato rispetto al mondo degli esseri viventi, infine lo stesso Freud che lo ha decentrato rispetto alla coscienza, fino a quel momento sicura delle verità che in se stessa veniva scoprendo. La filosofia, in seguito a queste scoperte, ha dovuto ripensare interi capitoli della sua storia.
Molto ci sarebbe da dire a proposito della teoria della relatività di Einstein, la quale mette in discussione la tradizionale concezione del tempo, che a mo’ di una freccia va irreversibilmente dal passato al futuro passando per il presente, ma il discorso sarebbe troppo lungo; perciò vengo immediatamente alla più recente scoperta di un sapere specialistico, su cui la filosofia è chiamata ancora una volta a riflettere. Quel sapere inaugurato dal famoso matematico inglese Alan Turing, il cui sviluppo ha avuto nei decenni scorsi un’accelerazione straordinaria. Parlo, ovviamente, dell’Intelligenza Artificiale (I.A.). L’uomo non ha avuto alcuna remora nell’attribuire l’intelligenza ad una macchina, da lui stesso ideata e costruita, mentre per troppo tempo si è rifiutato di farlo per l’animale. Eppure, sarebbe bastato considerare che, se c’è intelligenza nella macchina, essa vi è stata inserita dall’uomo. Un computer non può funzionare se non è programmato e corredato di tutti i dati che esso elaborerà. Perché, allora, questa sorta di timore reverenziale nei confronti di un oggetto che lo stesso homo faber ha costruito e che ha ispirato una notevole letteratura fantascientifica? Siamo di fronte, forse, ad un’ ulteriore umiliazione dell’uomo? Un filosofo, Günther Anders, ha parlato di “dislivello prometeico” nel rapporto uomo-macchina, nel senso che il livello di prestazioni del primo è incomparabilmente inferiore a quello della seconda, tale per cui l’uomo si sente schiacciato da quel “dislivello” e prova “vergogna” a paragonarsi con la sua stessa creatura. Ma è proprio giustificata questa “vergogna”? Proviamo a riflettere. L’intelligenza della macchina consiste nell’elaborazione, incomparabilmente più veloce di quella umana, di dati che essa possiede istantaneamente, nel senso che i dati sono già tutti presenti in essa. Questi dati vi sono stati immessi dall’uomo. Ora, questi dati sono stati acquisiti dall’uomo istantaneamente? Evidentemente, no. Ogni dato è il prodotto di una indagine, di una ricerca che hanno richiesto del tempo. Dunque, il sapere della macchina è un’acquisizione istantanea, quella dell’uomo è un’acquisizione cumulativa che avviene nel tempo, in una durata. Questa differenza richiama alla mente un’altra di carattere teologico e con la quale abbiamo familiarità sin dalle prime nozioni di catechismo. Dio è onnisciente e il suo sapere non è il prodotto di un’acquisizione cumulativa, non è il prodotto di una durata, ma è istantaneamente presente in Lui. L’uomo è, invece, nel tempo e solo nello svolgimento della sua storia può acquisire conoscenza. Insomma, quella “vergogna” di cui parlava il filosofo che sia il prodotto di una indebita, blasfema “divinizzazione” della macchina, del tentativo dell’uomo di farsi creatore di se stesso e attribuire alla sua creatura le perfezioni di cui manca?
pH creata con IA