“Ogni popolo ha il governo che si merita” – Joseph de Maistre

Nell’epoca in cui la politica è diventata un talent show, la scena si arricchisce di nuove, entusiasmanti comparse. Rita De Crescenzo, regina delle dirette Instagram, diva delle scale condominiali, ha annunciato la sua discesa in campo. E non su un palco qualunque: direttamente nel ring di Montecitorio, con tanto di alleanza tattica con Maria Rosaria Boccia, nome che pare un omaggio alla letteratura partenopea o a una linea di mascara.

Apriti cielo: indignazione bipartisan, analisi sociologiche da salotto Rai, editoriali gonfi di sdegno. Ma davvero? Adesso ci svegliamo? Dopo trent’anni di Seconda Repubblica e terze file del pensiero, ci scandalizziamo per una tiktoker napoletana con un passato colorito e una grammatica creativa? Ma per favore. Non ricordate quando a Montecitorio entrò Ilona Staller, in arte Cicciolina, con una margherita tra i capelli e un programma che parlava di sesso libero, animali protetti e pace nel mondo? E non lo diceva in podcast, lo diceva in Aula.

E vogliamo dimenticare Totò Cuffaro, che distribuiva cannoli in carcere, o Antonio Razzi, che con Berlusconi ha reso iconico l’aggettivo “coreano”? O ancora Toninelli, il ministro delle autostrade che non sapeva come funziona un’autostrada? E Vittorio Sgarbi, che in Parlamento ha portato più urla che voti? Ecco, in confronto, la Signora Rita sembra quasi sobria.

Nel frattempo, in quel laboratorio distopico che sono le Regioni italiane, si assiste al tragicomico spettacolo di governatori in cerca disperata di un terzo mandato, come se fossero rockstar in tournée nostalgica. La Costituzione? Un dettaglio. Il consenso? Un ricordo. Oggi si tratta solo di restare incollati alla sedia, mentre le stesse Regioni si mostrano incapaci di affrontare un temporale senza dichiarare lo stato d’emergenza. Frane, allagamenti, blackout: fenomeni atmosferici ordinari che diventano apocalissi in diretta Facebook.

E non sono da meno i sindaci, veri protagonisti della fiction istituzionale. A Terni ne abbiamo uno che sembra uscito da un casting per Bastardi senza gloria, versione urbana: linguaggio da bar, toni da squadrista, atteggiamenti da sceriffo con la fascia tricolore. Ma anche i sindaci più “glamour” non deludono: Beppe Sala, ad esempio, si fa immortalare in un docufilm agiografico in cui appare come una specie di Bruce Wayne col tram invece della Batmobile. Milano capitale morale? Forse. O forse solo capitale del greenwashing in pellicola.

E poi c’è L’Aquila, designata Capitale Italiana della Cultura 2026, dove il sindaco sembra più impegnato a firmare lo scempio urbanistico della nuova pavimentazione del corso e la discutibile forma della futura piazza del Duomo, che ad avviare una seria consultazione con la città. Una capitale della cultura, sì, ma senza un’idea condivisa, senza una voce pubblica, senza nemmeno una convocazione. Una capitale silenziosa, dove la cultura rischia di essere seppellita sotto mattonelle grigie e decisioni opache. E che dire del contesto? L’Aquila è anche capoluogo di una regione, l’Abruzzo, che ha speso non si sa come 1,2 miliardi per la sanità e oggi si ritrova con un buco da 280 milioni. Come lo colmeranno? Semplice: aumentando l’addizionale IRPEF ai cittadini. Più che una cura, una punizione.

E intanto, mentre l’Italia scopre con orrore che la democrazia permette anche ai follower di entrare in Parlamento, oltreoceano va in scena un altro episodio da manuale del surreale: l’accoglienza solenne che il Presidente Trump ha riservato a Giorgia Meloni.

Non proprio un vertice diplomatico, ma più un incontro tra due reduci del populismo, in cerca di affetto e validazione reciproca. Alla Casa Bianca, trasformata ormai in una succursale del set di un reality conservatore, Trump ha aperto le porte a Meloni con entusiasmo: pacche sulle spalle, sorrisetti d’intesa e promesse che sapevano di 2016.

Perché proprio il 2016? Perché è l’anno magico in cui Trump salì per la prima volta sul trono americano, contro ogni previsione, cavalcando l’onda dell’anti-politica, del muro col Messico e delle fake news a reti unificate. Era il tempo in cui sembrava davvero che bastasse un comizio, uno slogan, e qualche meme su Hillary Clinton per prendersi il mondo.

Ecco, il Trump che accoglie Meloni oggi si muove come se fosse ancora quel 2016: con l’aria di chi crede che nulla sia cambiato, che l’élite sia ancora la stessa, che i nemici siano sempre i giornalisti e gli intellettuali, e che basti una stretta di mano con una leader europea per tornare a dominare la scena globale. Peccato che intorno ci sia solo un’eco, e pochi applausi sinceri.

E noi, qui, in Italia, facciamo i sofisticati perché Rita De Crescenzo vuole fondare un partito? Ma se è l’unica, forse, ad avere un po’ di sincerità nel teatrino nazionale. Dice che non sa nulla di politica. Lo ammette. Vuole il reddito di cittadinanza, ha un podcast, non ha mai spacciato – e pare un merito ormai – e soprattutto ha 1,8 milioni di follower. Nella politica dei numeri, non è proprio irrilevante.

La verità è che il problema non è chi sale sul palco. Il problema è chi si mette comodo in platea e applaude senza farsi domande. E così, mentre ci scandalizziamo per l’ombretto di Rita, ci dimentichiamo che la nostra Camera ha visto molto peggio – e spesso l’ha pure rivotato.

Più che un Parlamento, ormai sembriamo una puntata infinita di Avanti un Altro!, con ospiti speciali Trump e Meloni in collegamento dalla Casa Bianca, e la Signora Rita pronta a salire sulla scaletta dei candidati, tra una diretta su TikTok e una benedizione da Padre Pio in plastica. Benvenuti nella politica 4.0: un po’ varietà, un po’ circo, molto Italia.

pH Pixabay senza royalty

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