La tempesta perfetta causata dai fulmini trumpiani impone all’Europa di guardare una volta per tutte a quel che succede in casa propria. É tempo che si concentri sul suo mercato interno, che è pur sempre un mercato di 450 milioni di cittadini-produttori-consumatori, al proprio apparato economico e produttivo, al proprio sistema tecnologico, magari cambiandone finalmente lo schema competitivo.
La questione di più immediata evidenza riguarda la propensione del continente europeo ad alimentare i consumi interni che rimanda, dal canto suo, allo stato di salute del mercato del lavoro, all’occupazione, ai salari, alla capacità di spesa collettiva.
Si tratta, a ben guardare di grandezze e parametri, attualmente, tutti, in caduta libera.
Sull’abbrivio della globalizzazione che ha spostato la competizione sui costi, la contrazione dei salari ha interessato tutti i paesi occidentali ed ha segnato l’Europa nella sua interezza.
In Italia gli effetti perversi della delocalizzazione combinati con la rarefazione degli investimenti innovativi ed i ritardi tecnologici hanno inciso ancor più fortemente sulla volatilità del lavoro che, a sua volta, si è riflessa su salari, stipendi e pensioni in evidente arretramento da vent’anni a questa parte.
La contrazione del potere d’acquisto ne è stata, e tuttora ne è la conseguenza obbligata a livello collettivo.
Essa, manifestatasi in maniera strisciante già al momento del cambio Lira/Euro, rivelatosi faticoso e problematico sin dall’avvio, è andata progressivamente accentuandosi a causa di un costante drenaggio fiscale (fiscal drag) indotto da un’inflazione spesso ignorata nella sua dimensione reale e non controbilanciata da adeguati strumenti di compensazione, per esplodere negli anni più recenti in concomitanza con la caduta verticale anche degli stessi valori nominali di salari, stipendi e pensioni.
L’accesso al lavoro con paghe sempre più basse oltre che in condizioni di precarietà crescente è diventato un dato strutturale. Addirittura obbligato.
La motivazione andava ricercata nella concorrenza internazionale imposta dalla globalizzazione che schiacciava i salari sui livelli dei paesi marginali con il risultato che in Italia, come in tutto l’Occidente ed in Europa, a causa di miopi scelte competitive, si importava povertà esportando saperi, tecnologie e sistemi produttivi oltre che cervelli.
Il valore reale del lavoro in Italia è precipitato dalle posizioni di punta degli anni novanta del secolo scorso a quelle attuali di coda tra i paesi industrializzati.
Lo stipendio di due/tre milioni di lire degli anni novanta era un buono/eccellente stipendio.
L’equivalente importo di 1000/1500 euro corrisposto negli anni successivi è diventato via via sempre più leggero. Non solo. Con l’avanzare del nuovo secolo gli stipendi si sono ridotti drasticamente anche sul piano nominale. Alla ribalta arrivò dapprima la cosiddetta generazione mille euro cui seguì la generazione cinquecento euro e infine la generazione dei compensi variabili legati alle partite iva che artatamente barattavano il lavoro dipendente per lavoro autonomo scaricando sugli interessati gli oneri previdenziali ed anche quelli legati alla protezione e sicurezza sociale con evidente, discutibile, beneficio dei conti delle imprese e dello Stato.
E questo in tutti i settori ed a tutti i livelli.
Ne é seguita una progressiva asfissia della capacità di spesa non solo degli inoccupati ma anche degli occupati. La povertà aveva preso ad aggredire chi lavorava, fenomeno sconosciuto sino a qualche decennio addietro.
La crisi del mercato interno e dei consumi é divenuta endemica. Di converso sono cresciute le esportazioni mentre disavanzi e surplus commerciali presero ad accavallarsi al di fuori di ogni razionale equilibrio sino alla guerra dei dazi.
Gli Usa, lancia in resta, decidono, e siamo ai giorni nostri, di imporre balzelli ed alzare muri a protezione del proprio mercato nell’illusione di sanare il deficit commerciale e di mettere una toppa ai guai del bilancio federale.
Ma il sistema della globalizzazione alimentato per decenni proprio dagli USA non tollera un tale processo ed alla imposizione dei dazi si affianca la guerra di tutti contro tutti.
Adesso bisogna chiedersi come se ne esce.
Certo richiamando in patria, ciascun paese, le imprese nazionali localizzate in giro per il mondo, ma è una strada scivolosa che corre su un piano pericolosamente inclinato perché chi la intraprende non intende o non può comunque rinunciare ai bassi costi.
É la legge della competizione globale senza bussole che segnino il nord e che non tollera dazi unilaterali come ha dimostrato l’attuale tempesta americana.
Per disinnescare la deriva autarchica e placare la tempesta daziaria bisogna creare le giuste condizioni per sostenere anche in casa la competitività del sistema produttivo agendo sul piano dei salari, della tassazione, dei costi previdenziali e di protezione e sicurezza sociale.
Lo puoi fare solo in un modo: alimentando il mercato interno che a sua volta gonfierà le vele delle imprese ed i bilanci degli Stati. Ma per ottenere tale risultato bisogna aumentare il lavoro ed il potere di acquisto dei lavoratori-consumatori spostando il sistema produttivo verso traguardi di innovazione e verso orizzonti tecnologici d’avanguardia.
In mancanza si genera un terribile corto circuito: la sopravvivenza di settori tradizionali, assai diffusi in Europa ed in Italia soprattutto, deprime infatti i livelli reddituali collettivi. Possono aumentare addirittura gli occupati ma, a causa dei bassi salari, la capacità di spesa individuale e collettiva arretra. Le esportazioni, in assenza di un mercato interno ricettivo, diventano una scelta obbligata, ma gli squilibri sono in agguato e con essi i dazi, le guerre commerciali e lo spettro del protezionismo se non dell’autarchia.
É possibile uscire da tale spirale?
L’Europa e l’Italia hanno ancora margini per farlo?
Il problema di fondo riguarda il ritardo degli investimenti nei settori innovativi che l’Europa e l’Italia in particolare hanno accumulato.
Non puoi cambiare il sistema competitivo costruito sulla globalizzazione puntando su produzioni tradizionali, manovrando la leva dei costi e praticando i bassi salari. Sei destinato a perdere. Lo aveva ben spiegato già nel Settecento David Ricardo allorquando costruì la sua teoria dell’equilibrio degli scambi internazionali basata sulla specializzazione. Ogni paese spinge la produzione nei settori in cui ha il massimo vantaggio competitivo in termini di quantità, qualità e costi rispetto ai concorrenti. In questo modo il sistema degli scambi sarà in equilibrio, teorizzava Ricardo, garantendo a ciascun paese la stabilità interna in termini di redditi e consumi.
Questo tuttavia comporta delle scelte. Non puoi illuderti di poter continuare a competere all’infinito con il Sud-Est asiatico e la Cina sulle produzioni a forte intensità di lavoro tradizionale ( manuale, standardizzato, ripetitivo) e se riporti quelle produzioni in patria devi abbassare i salari se vuoi sopravvivere, deprimendo, di conseguenza, il mercato domestico. É quello che é successo negli anni più recenti. L’Europa ha scelto di spingere al massimo il suo sistema produttivo, fortemente sbilanciato sui settori maturi, abbattendo i salari, abbassando le tutele sociali e precarizzando il lavoro. Beni di consumo immediato e durevoli, agro industria, automotive, logistica e servizi tradizionali sono il nucleo fondante della specializzazione produttiva europea ed italiana. Rari sono i settori, come la farmaceutica, in grado di sfruttare con uno standard produttivo alto anche una rendita di posizione elevata oltre ai profitti. Completamente marginali le attività proiettate nel futuro.
Qualche esempio, due, o, meglio ancora, tre, renderanno l’idea.
L’ Intelligenza Artificiale non abita da noi. Essa rappresenta la nuova frontiera non solo del sapere, del progettare, del ricercare, del produrre ma anche della stessa organizzazione del sistema economico, sociale e culturale mondiale. Lavorare sull’intelligenza artificiale significa sviluppare la scienza quantistica dai calcoli degli algoritmi ai computer, la ricerca d’avanguardia in tutte le sue branche assicurandosi un vantaggio competitivo che garantisce alti risultati se condotta a livello continentale e proposta in uno scenario planetario.
Digitalizzazione e controllo satellitare dell’atmosfera è l’orizzonte dello sviluppo proiettato nel futuro. Essa consente di gestire la protezione dei dati e della sicurezza personale, aziendale, nazionale e continentale. Non se ne può fare a meno. Vince, secondo il modello ricardiano, chi avrà le tecnologie ed i prodotti migliori tali da garantire il più alto vantaggio competitivo. Da essa dipende a cascata lo sviluppo di tuto il manifatturiero moderno, dai telefoni cellulari alla rete internet, alle comunicazioni, agli stessi sistemi di difesa necessari per sé, ammesso che si rifiuti la guerra d’aggressione.
Comunicazioni e logistica investono, dal canto loro, l’intera organizzazione delle relazioni d’affari e sociali a livello intercontinentale; ma anche i sistemi di interconnessione e trasporti non possono prescinderne.
L’Europa, e l’Italia devono in fretta riorganizzare il proprio sistema produttivo sottraendolo ai vincoli della competizione basata sui settori tradizionali e dovranno decidersi a colmare, in fretta, gli enormi ritardi accumulati.
Alla fine é una questione di scelte e di investimenti.
Lo hanno fatto gli Stati Uniti seppur delocalizzando, avendo privilegiato la finanza rispetto all’economia reale che ora vorrebbero rilanciare prendendo a randellate i concorrenti. Lo sta facendo la Cina in una strategia che integra produzione e finanza, futuro e presente, produzioni di massa e investimenti innovativi. Non lo ha fatto e non lo sta facendo l’Europa e men che meno l’Italia avendo lasciato la sponda tecnologica nella disponibilità pressoché esclusiva degli USA e conservato per sé la manifattura più tradizionale, peraltro delocalizzandone, in larga misura, la produzione .
Ed, ahimè, pensare di combattere una guerra commerciale su questi presupposti vuol dire non avere la percezione della realtà.
In un sistema di alleanze simbiotiche, quale è stato quello tra Europa e Nord-America, sino alla elezione dell’attuale Presidente degli USA, quella scelta, pur discutibile aveva un senso. Gli USA avevano il dominio dei settori high tech, ivi compresi i “servizi” per la difesa, l’Europa presidiava i settori di consumo. Il dollaro ( con l’Euro rispettosamente al suo posto) garantiva l’equilibrio generale ed anche l’afflusso di risorse necessarie a tenere in equilibrio la bilancia complessiva dei pagamenti USA ed il suo debito pubblico.
Era un sistema “perfetto” che si reggeva su un patto di amicizia e civiltà condivisa che ora é stato rotto e che difficilmente potrà essere ripristinato anche senza Trump. Esso infatti scricchiolava già da sé. Da molto tempo.
É evidente che l’Europa nella competizione tra USA e Cina ( ma anche India in una prospettiva prossima e non remota) è il vaso di coccio.
Può scegliere di essere l’alleato silente degli USA nella guerra per la supremazia tecnologica con la Cina ( e l’India), aderendo alla imposizione-ricatto del presidente americano. Può anche scegliere di ammiccare alla Cina ( ed all’India) tenendo sulla corda gli USA, giocando al ribasso sui dazi e offrendo in contropartita l’acquisto di armi e gas in un regime di sudditanza edulcorata.
Può infine decidere di giocare in proprio la partita ricardiana della specializzazione nei settori d’avanguardia cercando in essi il vantaggio competitivo a cui ha sempre rinunciato e decidendo finalmente ad investire massicciamente nelle attività e tecnologie sin qui trascurate, mantenendo magari la supremazia sui settori tradizionali di consumo ad alto contenuto di qualità, bellezza e bontà e abbandonando le produzioni a scarso valore aggiunto che deprimono salari e di conseguenza mercato del lavoro e consumi.
Lo dovrà fare a due condizioni. Anzi tre, anche in questo caso: stanziare massicci, reiterati investimenti; recuperare in fretta il tempo perso; ripristinare un mercato del lavoro di alto profilo che azzeri precarietà e bassi salari, ripristini lo Stato sociale, rilanci scuola ed università.
Abbiamo quattro anni di tempo: giusto il mandato di del presidente Trump per farlo, cominciando magari a stanziare annualmente 800 miliardi di euro per creare un nuovo equilibrio che azzeri i rischi di nuove tempeste anziché spenderli in armamenti made in USA.
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