“Io so. Ma non ho le prove. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca la verità.” – Pier Paolo Pasolini
Il 25 aprile segna, ufficialmente, la fine dell’occupazione nazifascista e l’avvio della Repubblica democratica. Ma ridurre questa data a una semplice “festa della libertà” rischia di appiattirne il significato. La Resistenza è stata un’impresa grandiosa, ma anche controversa, attraversata da conflitti, tensioni ideologiche, violenze reciproche, omissioni, e verità scomode ancora oggi in parte rimosse.
La Resistenza non unitaria
Come storici come Claudio Pavone hanno chiarito, la Resistenza fu anche una guerra civile. Non solo contro l’occupante tedesco e i fascisti della Repubblica di Salò, ma anche tra diversi gruppi resistenziali. Le divisioni tra comunisti, cattolici, liberali e anarchici esplosero anche con episodi di sangue. In molte zone d’Italia, soprattutto nell’Emilia rossa e nel Piemonte, alcuni partigiani “bianchi” furono eliminati da partigiani “rossi”. Le motivazioni andavano da sospetti di collaborazione con il nemico, a differenze ideologiche, a vendette personali mascherate da “giustizia rivoluzionaria”.
Un episodio emblematico fu l’eccidio di Porzûs (febbraio 1945), in Friuli Venezia Giulia, dove i partigiani comunisti della Brigata Garibaldi uccisero 17 partigiani della Brigata Osoppo (cattolico-azionisti) accusati – falsamente – di collaborazionismo. Tra le vittime, anche Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo. Un trauma che segnerà profondamente la visione politica del poeta.
Via Rasella e le Fosse Ardeatine
Un altro punto critico riguarda l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944, compiuto da un gruppo dei GAP contro una compagnia di SS tedesche. L’azione militare fu efficace ma provocò, come rappresaglia, la strage delle Fosse Ardeatine: 335 civili e prigionieri politici massacrati dai nazisti. I responsabili dell’attentato non si consegnarono – una scelta strategica legittima per alcuni, criticabile per altri – e per molti anni non ci fu una riflessione aperta sul rapporto tra azione partigiana e conseguenze civili. Questo silenzio fu vissuto da alcuni come una forma di rimozione collettiva.
Esecuzioni sommarie e il dopoguerra violento
Negli ultimi giorni della guerra e subito dopo, in molte zone si verificarono esecuzioni sommarie di fascisti e collaborazionisti, ma anche di semplici sospettati. Alcuni casi furono vendette personali o “regolamenti di conti” coperti dall’ideologia. Il caso di Giuseppina Ghersi, una ragazzina di 13 anni uccisa a Savona da partigiani nel 1945, è uno degli episodi più discussi, strumentalizzato spesso dalla propaganda ma indicativo di una verità storica da non ignorare: non tutta la violenza fu “giusta” o necessaria.
Altri episodi dimenticati includono:
- La strage di Codevigo (Padova, 1945): centinaia di fascisti e presunti collaborazionisti fucilati senza processo da reparti partigiani.
- Le violenze contro i vinti: in alcune zone del Nord Italia si verificarono linciaggi pubblici, processi sommari, donne rasate e umiliate pubblicamente solo per aver intrattenuto relazioni con soldati tedeschi.
Il cinema oltre la retorica
Molti film hanno raccontato la Resistenza nella sua dimensione più umana e meno celebrativa:
- “L’Agnese va a morire” (1976) di Giuliano Montaldo, tratto dal romanzo di Renata Viganò, racconta la scelta di una donna comune che entra nella Resistenza per vendetta e giustizia. Non c’è eroismo, ma dolore e solitudine.
- “I piccoli maestri” (1998) di Daniele Luchetti, tratto dal romanzo di Luigi Meneghello, mostra un gruppo di giovani universitari che scoprono quanto sia difficile, caotica e moralmente ambigua la lotta partigiana.
- “Corbari” (1970) di Valentino Orsini, con Giuliano Gemma, narra la storia vera del partigiano Silvio Corbari e della sua compagna Ada, in lotta contro i fascisti e traditi dagli stessi contadini che difendevano.
- “Sanguepazzo” (2008) di Marco Tullio Giordana, non parla di partigiani ma degli attori fascisti Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, fucilati dai partigiani a guerra finita: una riflessione cupa sulla giustizia sommaria.
Il dovere della memoria inquieta
Pier Paolo Pasolini lo aveva capito: la Resistenza non è un monumento da celebrare, ma un processo irrisolto da interrogare. Il suo sguardo tagliente, profetico, scava sotto la retorica per chiedere: chi ha davvero raccolto l’eredità di quei morti? La borghesia democristiana, il potere televisivo, il consumismo anni ‘60, la sinistra compromissoria?
La liberazione vera, per Pasolini, non è mai avvenuta: «abbiamo perso la guerra due volte», scriveva. Prima col fascismo, poi col fascismo che sopravvive nelle forme nuove del potere.
Il 25 aprile, dunque, non è una favola. È una storia dura, tragica, controversa. Ed è proprio affrontandola senza paura, nella sua verità piena, che possiamo continuare a darle senso. Non per sminuire i partigiani, ma per onorarli davvero — riconoscendoli come uomini, e non come statue.
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