Il 10 agosto del 1942 il sommergibile Sciré scomparve in fondo alle acque del porto di Haifa.
Quarantadue marinai vi restarono seppelliti e dovettero attendere il 1984 per tornare a casa dopo il recupero effettuato per volontà del governo dell’epoca presieduto dall’onorevole Giovanni Spadolini.
Il pensiero di quella bara di ferro in fondo al mare ossessionò le famiglie di quei ragazzi.
Mia nonna non si rassegnò mai a quell’idea. Allorquando il re d’Italia fuggì a Brindisi con l’armistizio dell’8 settembre del 1943, andò ad attenderlo con mio nonno in una piazza vicino al porto per urlargli tutta la rabbia per quella guerra maledetta e la disperazione per quella morte assurda, tragica e senza senso.
Più volte al paese la gente si era assiepata sulla piazza per attendere il passaggio del re. Come un tam-tam si era sparsa la notizia che il re sarebbe passato di là nella sua fuga e la gente era scesa in piazza per maledirlo. Poi finalmente l’incontro a Brindisi. Mia nonna gli rovesciò addosso tutto il suo disprezzo per lui, quella guerra ed il duce che con lui silente l’aveva voluta portando alla morte il fior fiore della gioventù compreso suo figlio.
Per un anno intero aveva sperato…
Dalla Messapia aveva risalito la penisola travolta dalla guerra sino a Trieste. Era giunto un telegramma che parlava di un marinaio ricoverato nell’ospedale militare di quella città e si era precipitata trascinando il nonno che per la verità non ci credeva. Come poteva sopravvivere un marinaio intrappolatonin un sommergibile affondato da una gragnuola di bombe di profondità in fondo al mare?
A Trieste le dissero che probabilmente si trovava a La Spezia e lei di nuovo attraversò l’Italia, questa volta trasversalmente, sui treni e con ogni mezzo di fortuna. A La Spezia si trovò davanti ad un marinaio che aveva lo stesso nome e cognome di suo figlio ma che non era suo figlio e che non era mai stato imbarcato sullo Sciré, le disse, mentre lei si sentiva morire lasciandogli una carezza prima di abbandonare, per sempre, la speranza e ridiscendere di nuovo, tutta intera, la penisola sino a casa, nel paese in fondo alla Messapia sulla costa Adriatica. Un paese di contadini e pescatori che aveva anch’esso pagato un terribile prezzo a quella guerra sciagurata. Erano tutti ragazzi…la notte in mare a pescare ed il giorno in campagna ad arare la vita. La nonna ed il nonno erano dei benestanti. Avevano terre a sufficienza e tutti lavoravano per sé e la famiglia. Sino a quella guerra maledetta. Il loro figlio era partito che era ancora un ragazzo, arruolato, come molti altri, in marina. L’ultima volta che mia madre lo vide fu per la licenza che gli venne concessa un anno prima. Dovevano partire per una missione assai pericolosa da cui non sapeva se sarebbe tornato. Comunque non avrebbe potuto scrivere e le consegnò un pacco di lettere da recapitare alla madre, una al mese, si raccomandò. Non seppe o non volle dirle dove era diretto. Le ripeté solo che era molto pericoloso e che sarebbe morto o si sarebbe riempito di gloria. Era un ragazzo… non sapeva nulla del fascismo. La sua vita vita era lì in quel paesino in fondo al tacco della penisola italica. Aveva soltanto ventidue anni quando scomparve in fondo al mare in quella fredda bara di ferro. Non conosceva il mondo. Gli avevano riempito la testa di idee sul coraggio, sulla gloria e quel sommergibile era diventato il mezzo di una fama imperitura. Era un ragazzo che del fascismo non fece in tempo a liberarsi, sino a quel 10 di agosto in cui l’aria gli venne a mancare in fondo a quella bara di ferro che lo teneva imprigionato e lo avrebbe tenuto prigioniero per oltre quarant’anni anni. La nonna si ammalò ed il nonno divenne silenzioso. Quando crebbi mia madre mi portava a casa dei nonni, la sera. Io mi tenevo stretto alla sua gonna. Avevo paura di quella casa grande, immersa nel silenzio. D’inverno la nonna e il nonno si mettevano seduti dentro al grande camino. Io guardavo e non vedevo nessuno finché sentivo la voce del nonno arrivare dal fondo di una caverna, a me sembrava. Non sopravvisse a lungo la nonna. Aveva anche danzato per una settimana in preda al furore del morso della taranta,dissero. Avevano chiamato i suonatori e lei appena sentì il tocco del tamburello prese ad agitarsi. Era un mese che stava a letto senza dare alcun segno di vita. Poi ballò la pizzica per una settimana intera crollando e stramazzando, addormentandosi sfinita e risvegliandosi… mia madre sperava che si fosse liberata della sua disperazione. Quel mese di agosto del 1984 la accompagnai a ricevere suo fratello al porto di Bari. Ci fu una grande cerimonia con il Presidente del Consiglio e tante autorità civili e religiose. Le chiesero se voleva portarsi a casa suo fratello per seppellirlo nel cimitero del paese. Lei rispose che il posto di suo fratello era accanto ai morti di quella maledetta guerra, di quella e di tutte le altre maledette guerre, nel Sacrario dei Caduti d’Oltre Mare a Bari dove venne finalmente tumulato.
Ero un ragazzino e per molti anni la seguivo sulla villa con il ritratto di suo fratello, il 4 novembre per la commemorazione dei caduti.
Il nonno la aspettava puntuale ogni anno ai piedi del Monumento che recava inciso l’elenco dei morti in guerra, finché visse pure lui, e ripeteva sotto voce “presente” quando il sindaco pronunciava il nome di suo figlio.
Io per parte mia osservavo quella gente e me li figuravo come statue di sale che popolavano quei miseri giardini comunali, muti, mostrando ciascuno il ritratto del proprio morto. Assaporavo quel dolore amaro e maturavo il senso della libertà. La nonna ed il nonno, mia madre e mio padre, tutti della famiglia, mi avrebbe raccontato mia madre, votarono per la Repubblica perché non tornassero mai più quegli anni terribili in cui le famiglie videro morire i propri figli strappati via da un dittatore e da un re che li avevano derubati di tutto. Anche la fede nuziale dovettero dare alla guerra, lei e mio padre e persino le pentole, i tegami, le stoviglie d’acciaio, di rame o di ottone.
E mi raccontava la miseria del razionamento e la violenza del mercato nero e l’arroganza del potestà e la paura… fino a quella guerra maledetta.
Votarono Repubblica e scelsero la democrazia perché chi fosse venuto dopo non corresse il rischio di morire inutilmente, assurdamente, come era successo a suo fratello. Perché nessuno dovesse vivere nel terrore e finalmente tutti si sentissero liberi. Mi disse così mia madre ed io mi nutrivo dei suoi pensieri e delle sue speranze e promisi a me stesso che sarei stato repubblicano, democratico e antifascista per sempre.
Mia madre mi aveva chiamato come suo fratello per ricordare e non dimenticare, quando mi diede alla luce, a guerra ormai finita e con il miracolo economico incombente. Ora che non sono più un ragazzo e che vivo in un mondo orfano di quanti questo mondo han liberato dalla dittatura e dal sottosviluppo rendendolo grande, tollerante, compassionevole, mi chiedo come mai tutto sembra essere stato dimenticato. E prego Dio, da laico, che voglia risparmiare a questo paese ed al mondo intero le sofferenze e le umiliazioni passate. E che il 25 aprile resti nella coscienza collettiva il giorno del ricordo della liberazione e del discrimine contro ogni deriva violenta.
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