Il presequel della storia della Regina Inad
Magnifica Regina Inad, fulgida creatura nel reame di torri ambrate e giardini stillanti un miele divino, la cui epidermide somigliava ad alabastro lunare ferito e gli occhi a sacri laghi ove le stelle si abissavano in venerazione. Consacrata era al silenzio di passioni ineffabili, al palpito di un desiderio represso, al dolce e crudele tormento dell’attesa.
Oderfla, monarca di auree cicatrici e manti intrisi di trionfi, recava nel petto un cuore già promesso. La sua legittima sposa, donna-tempesta con mani di radice e senno d’acciaio, genitrice dei suoi inverni e custode dei suoi ricordi, gli sedeva accanto sull’antico trono di quercia. Ma quando i suoi occhi incontrarono quelli di Inad, il tempo stesso, beffardo e clemente, si infranse in cristalli di un blu profondo, concedendogli un’ultima, devastante primavera.
Amarono. Con un ardore sacro e una furia inestinguibile.
Si unirono non come semplici amanti, ma come naufraghi che sorseggiano la vita da un calice di veleno dolcissimo. Le loro notti furono vangeli incisi su pergamene di carne viva, lenzuola tramutate in sentieri di estasi e calligrafie di passione. Lui, sovrano di vasti domini, si fece schiavo del singhiozzo di lei soffocato contro il suo collo. Lei, regina d’alabastro, s’inginocchiò dinanzi a quell’amore che la rendeva viva e la straziava.
Ma egli non era libero.Non era suo.
Inad abitava le stanze d’ombra, il tempo rubato alle albe, le promesse sussurrate mentre la notte serrava i cancelli del giorno. Ogni carezza, ogni parola, ogni abbandono era un dono e una ferita lancinante. Le sue giornate fluivano come un rosario di assenze: novantanove grani di dolore e una preghiera intrisa di sangue rappreso. Il cuore, martellato dalla lontananza, si tramutava in carne sanguinante sotto il peso del silenzio.
“Ti possiedo solo quando il mondo trattiene il respiro,” sussurrava alla luna complice.
Nel suo scrigno d’ossidiana, custodiva i tesori del loro amore proibito: missive scritte col sangue dell’anima ma mai recapitate, petali di rose colti nell’istante del loro appassire dopo l’amplesso, un velo di seta che aveva raccolto le loro lacrime congiunte, frammenti di sogni solidificati in cristalli di memoria.
E ogni notte, sotto il baldacchino argenteo delle stelle, versava lacrime preziose e amare come la resina sacra degli alberi vetusti, affinché neppure il cielo conoscesse l’immensità di quella pena.
Eppure, lo amava. Con la dedizione dei fiori alla luce, con la rassegnazione degli amanti condannati alla distanza incolmabile.
Lo amava nel silenzio che precede il tuono.
Lo amava nell’abisso tra due respiri, quando l’anima è nuda e indifesa.
Lo amava persino mentre lo condivideva.
«Perché io non sono la sola, mio Re», scriveva nel pensiero, «ma tu sei l’unico per me.»
E quel pensiero era la sua catena e la sua libertà sublime.
Nelle notti d’inverno, quando il castello gemeva sotto il peso delle nevi eterne, i loro corpi si cercavano con una fame atavica.
Lui la possedeva in idiomi dimenticati, lei lo accoglieva con riti innominabili.
All’alba, restava solo un’impronta di gelo sul letto deserto, rugiada cristallizzata dal respiro degli spiriti – testimone di un amore che palpitava al confine tra sogno e realtà.
“Sei il mio peccato originale,” le incise,con voce affannata Oderfla sulla schiena, “il mio Eden che arde senza consumarsi.”
Morirono e rinacquero infinite volte in una singola notte d’amore intenso.
Ogni addio era un parto straziante.
Ogni ritorno una resurrezione gloriosa.
Era l’amore – come narrò la sapiente Diotima a Socrate – un ponte sospeso tra il mortale e il divino. E Inad percorreva quel ponte, vacillante, radiosa, sofferente, con il cuore in frantumi e l’anima in ascesa vertiginosa.
Fu amore.
Non bastò.
Ma fu immortale, vibrante e indomito.
Nel giardino segreto del castello, dove gli alberi di melograno stillavano lacrime di rubino, Inad e Oderfla seppellirono una cassetta di legno fragrante. Conteneva un frammento del loro cuore indivisibile, una reliquia del tempo sottratto al fato. Sopra vi piantarono un roseto bianco che fiorì con petali orlati di rosso, come se ogni fiore fosse stato bagnato da stille di sangue vivo.
Nei secoli a venire, quel roseto continuò a fiorire anche nelle stagioni più spietate. E quando i venti notturni accarezzavano i suoi rami, si poteva udire una melodia soave – non un lamento, ma un canto d’amore eterno e potente.
Perché anche quando Oderfla dormiva tra braccia altrui, il suo sogno più profondo apparteneva a Inad.
E nel sogno, ella non era amante.
Era Regina.
L’unica.
L’adorata.
L’ amata .
Per sempre.
E le leggende, si sa,
non sono che ferite immortali
che trafiggono i secoli
come stelle cadenti,
ardendo ancora,
ardendo sempre,
illuminando gli amanti
che verranno.
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