di Daniela Piesco Direttore Responsabile
C’è una poesia che non alza la voce, che non si impone, ma resta.
Resta come un filo d’acqua che scava la pietra, come un’eco che si deposita dentro senza clamore.
È la poesia di Elio Pecora.
La pioggia aveva trasformato Benevento in un acquerello sfumato, cancellando i confini tra cielo e selciato. Così, il chiostro di Santa Sofia, con le sue arcate aperte al vento , è stato costretto a lasciare il posto alle geometrie sospese del Museo Arcos, dove l’arte contemporanea dialoga con muri bianchi e silenzi curati. Un cambio di scena non previsto, ma che si è rivelato un’alchimia perfetta: come se la poesia avesse scelto deliberatamente di rifugiarsi tra opere d’arte, per specchiarsi in un altro linguaggio del sublime.
Il sommo Poeta,con voce chiara e quieta,iniziava il suo insegnamento :la poesia è un uccello raro,fragile, libero, impossibile da imprigionare. È educazione dei sentimenti: non uno sfogo, non un gioco di artifici, ma un lento lavoro sull’anima, come il contadino che conosce la pazienza della semina e il silenzio dell’attesa.E l’arte non è artificio, ma spontaneità ricreata: un dono che si rinnova ogni volta che sappiamo guardare con occhi nuovi.
Nel suo parlare lieve, ogni parola cadeva come una goccia su un terreno assetato. Nessuna ostentazione, nessun bisogno di stupire. Solo la verità sottile e precisa di chi ha vissuto e sa che l’esistenza è un equilibrio continuo tra ironia e dramma, tra sapere e dolore, tra memoria e stupore.
Le sue parole disegnavano nel museo Arcos di Benevento,un altro paesaggio: fatto di silenzi che pesano quanto i versi, di presenze che abitano le assenze, di felicità mai stanca che sa vivere anche nelle crepe del tempo.
Elio Pecora non ci ha dato risposte: ci ha regalato strumenti per abitare meglio le domande.
E oggi, grazie a lui, sappiamo che la poesia non consola e non promette: accompagna.
Come un uccello raro, come un amico fedele, come una voce che ci abita senza rumore.
E che, restando, ci insegna a vivere.
Tra colonne che custodiscono secoli di silenzi, Elio Pecora ha spiegato le ali della sua poesia, trasformando il pomeriggio in un volo.
Le sue parole, cesellate con la precisione di un orafo, hanno danzato nella sala , sfiorando i volti degli ascoltatori come petali di magnolia. C’era chi chiudeva gli occhi per trattenere l’immagine, chi annotava frasi a margine di un taccuino, come se volesse cucire quelle verità alla stoffa del proprio esistere.
Attorno a lui, Domenico Cosentino, Antonella Rosa e Nicola Sguera hanno tessuto un dialogo che era già poesia: domande simili a bozzoli da cui sgusciavano farfalle di pensiero.
Non è evasione, ma un modo più intenso di abitare la realtà. Una costrizione a guardare le cose due volte: la prima per riconoscerle, la seconda per comprenderle.
La poesia somiglia davvero a un uccello?Forse si perché è fragile, ma,allo stesso tempo è capace di migrazioni infinite. E forse era questo il miracolo dell’incontro: aver visto, per un attimo, quel volatile raro posarsi sulle spalle di tutti, rendendo leggero il peso di essere umani.
La serata si è chiusa con un applauso che era più un respiro collettivo, un grazie senza parole. Mentre i partecipanti uscivano nel crepuscolo beneventano, portavano con sé non un ricordo, ma una domanda: come educare i propri sentimenti, ora che sapevano che la poesia può essere sia specchio che finestra.
Elio Pecora, intanto, sorrideva tra sé, consapevole che ogni verso condiviso è un seme piantato nel giardino segreto degli altri. E che domani, chissà, qualcuno lo innaffierà.