di Daniela Piesco e Franco Luceri 

In un’epoca in cui si discute intensamente di cittadinanza, diritti di sangue e di suolo, emerge silenziosa ma potente una ferita antica: la perdita della cittadinanza italiana da parte di milioni di connazionali emigrati. Un fenomeno che, a ben vedere, non riguarda soltanto il passato, ma pesa ancora oggi sulla sovranità nazionale e sull’identità collettiva.

Un caso emblematico è quello di Jorge Mario Bergoglio,  Papa Francesco. Nato a Buenos Aires, da padre, nonni e bisnonni paterni italiani (piemontesi) e da parte materna ancora discendente da italiani, secondo il principio dello ius sanguinis — tuttora vigente nella legislazione italiana — avrebbe potuto mantenere o ottenere la cittadinanza italiana. Eppure non è stato così: come milioni di figli e nipoti dell’emigrazione italiana tra Ottocento e Novecento, la cittadinanza si è persa lungo il cammino, vittima di norme rigide, scarsa tutela statale e di un’idea ristretta di appartenenza.

La diaspora italiana è stata una delle più imponenti della storia moderna: tra il 1876 e il 1976 si calcola che circa 26 milioni di italiani siano emigrati all’estero. Tuttavia, a differenza di altre nazioni che hanno saputo mantenere un legame stretto con i propri cittadini espatriati, l’Italia ha spesso lasciato i propri figli lontani a se stessi. Le norme sulla cittadinanza, infatti, fino al 1992 non prevedevano la possibilità di mantenere una doppia cittadinanza: chi acquisiva una nuova cittadinanza straniera, perdeva automaticamente quella italiana.

Questo ha significato che intere generazioni di italiani — spesso per mera necessità di sopravvivenza — si sono visti cancellare ogni legame giuridico con la madrepatria. Nessun doppio passaporto, nessun diritto di ritorno automatico. Una perdita che non è solo formale, ma che ha minato nel tempo la forza culturale, economica e politica della “nazione fuori dalla nazione”.

Oggi, il riconoscimento della cittadinanza italiana per discendenza (ius sanguinis) è ancora possibile, ma si tratta di un percorso tortuoso, lungo e a tratti umiliante, che richiede una quantità enorme di documentazione e anni di attesa. Nel frattempo, altri Paesi — come Irlanda, Polonia, Israele — hanno costruito sistemi più rapidi e accoglienti per riconoscere i propri cittadini all’estero e riannodare i fili della diaspora.

La questione della cittadinanza, dunque, non è solo una faccenda burocratica, ma tocca il cuore della sovranità nazionale. Una sovranità che non si misura solo entro i confini geografici, ma anche nella capacità di mantenere un’identità coesa, forte, che non dimentica i suoi figli, ovunque essi si trovino.

L’Italia deve forse ancora compiere fino in fondo un cammino di consapevolezza: riconoscere che i suoi emigrati non sono una perdita, ma una risorsa; che la diaspora non è una fuga, ma una possibilità di espansione; e che ogni cittadino italiano nel mondo è un pezzo vivo di patria da non lasciare dissolvere nel silenzio della storia.

pH Pixabay senza royalty

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