“La medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilità.”
— William Osler

Un cambiamento silenzioso ma devastante ha investito la medicina moderna: da arte della cura è diventata tecnica della gestione, da scienza del vivere bene è scivolata nella mera amministrazione di protocolli.
Il medico, che un tempo era artigiano sapiente, compagno nella malattia, si è ridotto a un mero esecutore di ordini standardizzati.
Un burocrate della salute, prigioniero di linee guida, algoritmi terapeutici e interessi economici sempre più evidenti.

La salute non è più un valore umano fondamentale, ma un business da alimentare incessantemente.
Non si cura più per guarire: si cura per mantenere il paziente in uno stato di perpetuo bisogno.
La perfezione fisica, la salute totale, l’assenza di difetti non sono più viste come ideali etici o filosofici da perseguire, ma come obiettivi di mercato: ogni nuova terapia, ogni nuova tecnologia diagnostica, ogni nuovo protocollo diventa un’occasione per fatturare.
La malattia è redditizia; la salute stabile e duratura, al contrario, non lo è.

L’immaginario collettivo e il medico ridotto a tecnico

Questa deriva è visibile anche nella cultura popolare: cinema e serie tv hanno abbandonato ogni residuo di umanesimo medico.
Oggi il medico è il tecnico infallibile, il meccanico del corpo, il “problem solver” iper-specializzato.

In Dr. House il medico è cinico e distaccato, incapace di empatia;
in The Good Doctor il protagonista è un genio tecnico che legge il corpo come uno schema da correggere, senza reale dialogo umano;
in Grey’s Anatomy o New Amsterdam il paziente è solo pretesto narrativo, non centro del gesto medico.

Non si racconta più il pensiero medico, la lenta costruzione della relazione terapeutica, il dubbio, la paura condivisa, la fragilità dell’essere umano.
Si raccontano solo successi tecnologicicorse contro il temposoluzioni meccaniche a problemi complessi.
La medicina è ridotta a spettacolo tecnico.

L’inganno del “Trionfo della medicina”

Questa stessa mentalità acritica domina opere come “Il trionfo della medicina”, film che celebra la tecnologia sanitaria senza mai interrogarsi sul suo prezzo umano.
Non vi è traccia di riflessione epistemica, non vi è spazio per la domanda fondamentale:

“A cosa serve la medicina? Qual è la sua funzione autentica?”

Il film esalta la velocità delle innovazioni, la potenza delle macchine, la moltiplicazione dei protocolli, ma tace sulla riduzione dell’uomo a oggetto riparabile, sulla perdita di senso che accompagna la medicalizzazione illimitata della vita.

La pandemia come occasione mancata

Nemmeno la tragedia planetaria del Covid-19 ha provocato un risveglio del pensiero medico.
La pandemia è stata gestita con logiche esclusivamente tecniche: curve epidemiologiche, tamponi, lockdown, vaccini — ma nessuna seria riflessione pubblica su cosa significhi davvero curare.

Nessuno ha posto la domanda su come il medico debba accompagnare l’uomo nella paura, nella solitudine, nella malattia, nella morte.
La medicina ha reagito da apparato tecnico, non da arte umana.

Non ha pensato.
Non ha dubitato.
Non si è interrogata.

Contro la medicina senz’anima

Oggi la medicina ha tradito se stessa.
Non è più arte della cura, ma tecnica della gestione.
Non è più scienza dell’uomo, ma business del corpo.
Non è più ricerca di senso, ma esercizio cieco di potere tecnologico.

Il medico è diventato tecnico, il paziente consumatore, la malattia mercato.

In nome della precisione abbiamo sacrificato il dubbio.
In nome della velocità abbiamo sacrificato l’ascolto.
In nome dell’efficienza abbiamo sacrificato la compassione.

La pandemia ha mostrato il vuoto di questa medicina automatizzata: numeri, statistiche, protocolli — ma nessuna vera riflessione su cosa significhi vivere e morire da esseri umani.

Chiediamo una medicina che sappia pensare.
Una medicina che sappia ascoltare.
Una medicina che sappia dubitare.
Una medicina che torni ad essere umana.

Conclusione

Senza una riscoperta della sua anima, la medicina sarà condannata a essere solo un apparato tecnico, efficiente e disumano.
Ma il corpo non è una macchina.
L’uomo non è un oggetto.

Curare è un atto di pensiero, di ascolto e di amore.
Solo chi saprà riscoprire l’arte antica del curare potrà veramente, ancora una volta, salvare non solo vite, ma umanità.

Il canto amaro del medico perduto

(Poesia di Italo Nostromo)

Io medico perso nella tecnica
Senza cuore non ho né passione né cure
Cammino tra macchine fredde, numeri sterili,
Compilo cartelle, prescrivo, dimentico volti.

Le mani che un tempo sapevano ascoltare
ora sono strumenti ciechi, dita metalliche.
Ho smarrito il respiro dei malati,
il tremore, la preghiera, la disperata attesa.

Vesto il camice come corazza,
mi protegge dal dolore che non voglio più vedere.
Ma la mia anima geme nei corridoi vuoti,
cerca il senso che ho venduto al mercato della velocità.

Io medico, io fantasma, io assente,
imploro il ritorno dell’antica arte:
un gesto che curi, una parola che guarisca,
una presenza che sappia ancora salvare.

E i padri mi guardano disperati
poiché ho disperso il loro respiro.

 

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