Terremoto e insulti.Unita’ solo a parole
Editoriale di Daniela Piesco direttore responsabile Una notte difficile per la popolazione napoletana . Nella zona dei campi flegrei si sono registrate oltre 150 scosse di terremoto, tra cui la…
di Daniela Piesco Direttore Responsabile
C’è una poesia che non alza la voce, che non si impone, ma resta.
Resta come un filo d’acqua che scava la pietra, come un’eco che si deposita dentro senza clamore.
È la poesia di Elio Pecora.
La pioggia aveva trasformato Benevento in un acquerello sfumato, cancellando i confini tra cielo e selciato. Così, il chiostro di Santa Sofia, con le sue arcate aperte al vento , è stato costretto a lasciare il posto alle geometrie sospese del Museo Arcos, dove l’arte contemporanea dialoga con muri bianchi e silenzi curati. Un cambio di scena non previsto, ma che si è rivelato un’alchimia perfetta: come se la poesia avesse scelto deliberatamente di rifugiarsi tra opere d’arte, per specchiarsi in un altro linguaggio del sublime.
Il sommo Poeta,con voce chiara e quieta,iniziava il suo insegnamento :la poesia è un uccello raro,fragile, libero, impossibile da imprigionare. È educazione dei sentimenti: non uno sfogo, non un gioco di artifici, ma un lento lavoro sull’anima, come il contadino che conosce la pazienza della semina e il silenzio dell’attesa.E l’arte non è artificio, ma spontaneità ricreata: un dono che si rinnova ogni volta che sappiamo guardare con occhi nuovi.
Nel suo parlare lieve, ogni parola cadeva come una goccia su un terreno assetato. Nessuna ostentazione, nessun bisogno di stupire. Solo la verità sottile e precisa di chi ha vissuto e sa che l’esistenza è un equilibrio continuo tra ironia e dramma, tra sapere e dolore, tra memoria e stupore.
Le sue parole disegnavano nel museo Arcos di Benevento,un altro paesaggio: fatto di silenzi che pesano quanto i versi, di presenze che abitano le assenze, di felicità mai stanca che sa vivere anche nelle crepe del tempo.
Elio Pecora non ci ha dato risposte: ci ha regalato strumenti per abitare meglio le domande.
E oggi, grazie a lui, sappiamo che la poesia non consola e non promette: accompagna.
Come un uccello raro, come un amico fedele, come una voce che ci abita senza rumore.
E che, restando, ci insegna a vivere.
Tra colonne che custodiscono secoli di silenzi, Elio Pecora ha spiegato le ali della sua poesia, trasformando il pomeriggio in un volo.
Le sue parole, cesellate con la precisione di un orafo, hanno danzato nella sala , sfiorando i volti degli ascoltatori come petali di magnolia. C’era chi chiudeva gli occhi per trattenere l’immagine, chi annotava frasi a margine di un taccuino, come se volesse cucire quelle verità alla stoffa del proprio esistere.
Attorno a lui, Domenico Cosentino, Antonella Rosa e Nicola Sguera hanno tessuto un dialogo che era già poesia: domande simili a bozzoli da cui sgusciavano farfalle di pensiero.
Non è evasione, ma un modo più intenso di abitare la realtà. Una costrizione a guardare le cose due volte: la prima per riconoscerle, la seconda per comprenderle.
La poesia somiglia davvero a un uccello?Forse si perché è fragile, ma,allo stesso tempo è capace di migrazioni infinite. E forse era questo il miracolo dell’incontro: aver visto, per un attimo, quel volatile raro posarsi sulle spalle di tutti, rendendo leggero il peso di essere umani.
La serata si è chiusa con un applauso che era più un respiro collettivo, un grazie senza parole. Mentre i partecipanti uscivano nel crepuscolo beneventano, portavano con sé non un ricordo, ma una domanda: come educare i propri sentimenti, ora che sapevano che la poesia può essere sia specchio che finestra.
Elio Pecora, intanto, sorrideva tra sé, consapevole che ogni verso condiviso è un seme piantato nel giardino segreto degli altri. E che domani, chissà, qualcuno lo innaffierà.
“La medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilità.”
— William Osler
Un cambiamento silenzioso ma devastante ha investito la medicina moderna: da arte della cura è diventata tecnica della gestione, da scienza del vivere bene è scivolata nella mera amministrazione di protocolli.
Il medico, che un tempo era artigiano sapiente, compagno nella malattia, si è ridotto a un mero esecutore di ordini standardizzati.
Un burocrate della salute, prigioniero di linee guida, algoritmi terapeutici e interessi economici sempre più evidenti.
La salute non è più un valore umano fondamentale, ma un business da alimentare incessantemente.
Non si cura più per guarire: si cura per mantenere il paziente in uno stato di perpetuo bisogno.
La perfezione fisica, la salute totale, l’assenza di difetti non sono più viste come ideali etici o filosofici da perseguire, ma come obiettivi di mercato: ogni nuova terapia, ogni nuova tecnologia diagnostica, ogni nuovo protocollo diventa un’occasione per fatturare.
La malattia è redditizia; la salute stabile e duratura, al contrario, non lo è.
Questa deriva è visibile anche nella cultura popolare: cinema e serie tv hanno abbandonato ogni residuo di umanesimo medico.
Oggi il medico è il tecnico infallibile, il meccanico del corpo, il “problem solver” iper-specializzato.
In Dr. House il medico è cinico e distaccato, incapace di empatia;
in The Good Doctor il protagonista è un genio tecnico che legge il corpo come uno schema da correggere, senza reale dialogo umano;
in Grey’s Anatomy o New Amsterdam il paziente è solo pretesto narrativo, non centro del gesto medico.
Non si racconta più il pensiero medico, la lenta costruzione della relazione terapeutica, il dubbio, la paura condivisa, la fragilità dell’essere umano.
Si raccontano solo successi tecnologici, corse contro il tempo, soluzioni meccaniche a problemi complessi.
La medicina è ridotta a spettacolo tecnico.
Questa stessa mentalità acritica domina opere come “Il trionfo della medicina”, film che celebra la tecnologia sanitaria senza mai interrogarsi sul suo prezzo umano.
Non vi è traccia di riflessione epistemica, non vi è spazio per la domanda fondamentale:
“A cosa serve la medicina? Qual è la sua funzione autentica?”
Il film esalta la velocità delle innovazioni, la potenza delle macchine, la moltiplicazione dei protocolli, ma tace sulla riduzione dell’uomo a oggetto riparabile, sulla perdita di senso che accompagna la medicalizzazione illimitata della vita.
Nemmeno la tragedia planetaria del Covid-19 ha provocato un risveglio del pensiero medico.
La pandemia è stata gestita con logiche esclusivamente tecniche: curve epidemiologiche, tamponi, lockdown, vaccini — ma nessuna seria riflessione pubblica su cosa significhi davvero curare.
Nessuno ha posto la domanda su come il medico debba accompagnare l’uomo nella paura, nella solitudine, nella malattia, nella morte.
La medicina ha reagito da apparato tecnico, non da arte umana.
Non ha pensato.
Non ha dubitato.
Non si è interrogata.
Oggi la medicina ha tradito se stessa.
Non è più arte della cura, ma tecnica della gestione.
Non è più scienza dell’uomo, ma business del corpo.
Non è più ricerca di senso, ma esercizio cieco di potere tecnologico.
Il medico è diventato tecnico, il paziente consumatore, la malattia mercato.
In nome della precisione abbiamo sacrificato il dubbio.
In nome della velocità abbiamo sacrificato l’ascolto.
In nome dell’efficienza abbiamo sacrificato la compassione.
La pandemia ha mostrato il vuoto di questa medicina automatizzata: numeri, statistiche, protocolli — ma nessuna vera riflessione su cosa significhi vivere e morire da esseri umani.
Chiediamo una medicina che sappia pensare.
Una medicina che sappia ascoltare.
Una medicina che sappia dubitare.
Una medicina che torni ad essere umana.
Senza una riscoperta della sua anima, la medicina sarà condannata a essere solo un apparato tecnico, efficiente e disumano.
Ma il corpo non è una macchina.
L’uomo non è un oggetto.
Curare è un atto di pensiero, di ascolto e di amore.
Solo chi saprà riscoprire l’arte antica del curare potrà veramente, ancora una volta, salvare non solo vite, ma umanità.
(Poesia di Italo Nostromo)
Io medico perso nella tecnica
Senza cuore non ho né passione né cure
Cammino tra macchine fredde, numeri sterili,
Compilo cartelle, prescrivo, dimentico volti.Le mani che un tempo sapevano ascoltare
ora sono strumenti ciechi, dita metalliche.
Ho smarrito il respiro dei malati,
il tremore, la preghiera, la disperata attesa.Vesto il camice come corazza,
mi protegge dal dolore che non voglio più vedere.
Ma la mia anima geme nei corridoi vuoti,
cerca il senso che ho venduto al mercato della velocità.Io medico, io fantasma, io assente,
imploro il ritorno dell’antica arte:
un gesto che curi, una parola che guarisca,
una presenza che sappia ancora salvare.E i padri mi guardano disperati
poiché ho disperso il loro respiro.
Editoriale di Daniela Piesco direttore responsabile Una notte difficile per la popolazione napoletana . Nella zona dei campi flegrei si sono registrate oltre 150 scosse di terremoto, tra cui la…