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Inaugurata a Benevento la “Stanza per la Poesia” presso la Biblioteca provinciale. Dal 18 ottobre al via ciclo di incontri in uno “spazio pubblico a disposizione di tutti” (VIDEO E FOTO)
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Post-democrazia
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Cultura e società

La morte come fenomeno sociale e la sua trasformazione negli anni
La morte come fenomeno sociale e la sua trasformazione negli anni

(riflessioni di un rianimatore)

Di Brunello Pezza 

Prima di trattare questo argomento ho impiegato parecchio tempo per trovare un titolo ed una “intro” che fossero meno impattanti agli occhi e alla sensibilità del pubblico, ma poi ho capito che stavo già sbagliando: la morte non è un concetto che puoi addolcire o disinnescare, la morte è la morte, un fenomeno “tutto o nulla”, la puoi solo accettare ed elaborare per ciò che è oppure la puoi negare, far finta che non esiste.
Questo è poi infine proprio il tema che proverò ad affrontare in queste righe.
Permettetemi, prima di cominciare, di dire perché voglio parlare di questo argomento: sono stato (o forse dovrei dire “sono”) un rianimatore che ha lavorato dal 1977 al 2019 in posti come Pronto Soccorsi, Sale Operatorie, Rianimazioni e quindi a stretto contatto con la morte, combattendo contro di lei (come tutti i medici ma in modo particolare i rianimatori) e contendendo a lei (estremamente più potente di noi) la vita dei pazienti che ci venivano affidati.
Quindi ho avuto un osservatorio molto speciale per studiarne non solo gli aspetti sanitari ma anche l’impatto sociale ed il modo in cui si è evoluto durante questi anni.

Scusandomi per la prolissa ma (credo) indispensabile premessa entro ora nel pieno dell’argomento e lo voglio fare descrivendovi due scenari tipici del nostro lavoro in due epoche diverse: una relativa agli inizi della mia vita lavorativa (fine anni 70’) ed uno relativo alla fase finale (2018-2019). La situazione è la stessa: il momento in cui si danno le prime informazioni ai parenti relative alle condizioni del paziente ed alle prospettive possibili.
Alla fine degli anni ’70 quando dicevi ai familiari che pur essendo grave il paziente aveva delle chanches e doveva quindi ricoverarsi in Rianimazione e poi specificavi loro che però se l’esito fosse stato negativo la salma avrebbe dovuto rimanere in ospedale, succedeva che i familiari ti guardassero con gli occhi sgranati e volti sconvolti dal dolore e dicevano: “ … e deve morire in ospedale? Non può tornare a casa sua?” ritenendo ciò un estrema cattiveria o addirittura una offesa, anche se involontaria, al loro caro. Il fatto che non potesse tornare a casa sua a ricevere il dovuto saluto ed il dovuto affetto di amici e parenti sembrava a loro gravissimo. La mancanza in pratica di una doverosa “liturgia” che sancisse e celebrasse l’evento triste ma inevitabile era una condizione quasi insopportabile per loro.

Spostiamoci ora negli ultimi anni del mio periodo lavorativo (2018 -2019), nella stessa condizione relativa alle informazioni alla famiglia ma con un tipo di paziente che per vari motivi era ritenuto irrecuperabile e non suscettibile di terapia rianimatoria efficace. Per tali motivi (cosi si concludeva il discorso) si riferiva che fosse inutile e doloroso il ricovero e che il paziente poteva essere riportato a casa dalla sua famiglia. Subito dopo averlo detto i volti degli ascoltatori erano come nel primo caso sconvolti e con gli occhi sgranati ma la frase che il più delle volte ascoltavi era “… e deve morire a casa?”.
Come potete capire sono due scenari assolutamente opposti e la evoluzione dal primo al secondo nel corso di questi anni è stata l’effetto di una profonda trasformazione sociale.

Nel secolo scorso la morte è stata affrontata come una realtà triste ma innegabile ed inevitabile, era un fenomeno chiaro e non equivocabile e veniva gestito con un “rituale liturgico” da parte delle due autorità del paese: il medico condotto per la parte sanitaria ed il parroco per la parte liturgica. Le famiglie e gli amici si sentivano impegnati nel saluto e nel commiato e nessuno, neanche i bambini, veniva escluso dall’evento.
In tal modo veniva insegnato a tutta la comunità (adulti e bambini) come “metabolizzare” e quindi superare l’evento. La perdita per motivi ospedalieri di questo rito veniva considerato una gravissima carenza, una “falla” del sistema, addirittura qualcosa di cui vergognarsi.
Cosa è successo da allora ad oggi?
Su questo posso esprimere solo una opinione personale ma ritengo sia fondata: la nostra società , tramite i media, sta diffondendo da tempo una “subcultura della immortalità”: bisogna essere sempre belli, giovani, sani, atletici, meglio se famosi o almeno avere followers che ti fanno illudere di essere tale. In questo contesto la morte (quella vera non quella che ci fanno vedere le tv mentre siamo a cena a tavola o sdraiati sul divano) non può esistere, altrimenti si rischia di smentire questo illusorio sistema che, come sempre succede, sostiene anche un importante mercato della “bellezza e della immortalità”.
La morte quindi non può entrare nelle nostre case, non deve essere facilmente accessibile e tangibile concettualmente e visivamente. Gli Ospedali e in particolare le Rianimazioni, in un totale fraintendimento della loro importantissima funzione, si prestano benissimo a questo processo di ”occultamento”. Poco importa se i nostri bambini, esclusi dal rito e dalla liturgia della morte, non sapranno gestire in un prossimo futuro nessun aspetto dell’evento perché nessuno glielo ha insegnato.

Tutto questo viene sacrificato sull’altare di una finta immortalità, di un fittizio mito della bellezza e della salute perenne. Basta nascondere sempre di più la morte e il suo impatto sociale e il gioco è fatto.

Siamo tornati quindi a quanto dicevo nelle mie prime parole: la morte non la puoi sminuire o svilire, la morte o la riconosci per ciò che è o la neghi, la annulli nell’oblio.

Vi lascio con una ultima riflessione: il culto dei morti è considerato universalmente una delle prime, se non la prima espressione di una civiltà, quanto stiamo tornando indietro?

Ph : Pixabay senza royalty

Discussa Bellucci
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La caduta di una maschera
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La battaglia di Lepanto
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Ambiente

L’uva, il profumo di ottobre ed il colore dell’autunno
L’uva, il profumo di ottobre ed il colore dell’autunno

Ottobre ci porta con i suoi splendidi colori anche il profumo del mosto e l’appiccicaticcio dell’uva.

Nell’immaginario collettivo si ritorna alla routine quotidiana dopo le vacanze estive. Le credenze si affollano di conserve mentre i frigoriferi si riempiono di uva di vari colori e sapori. L’uva , simbolo e regina dell’abbondanza , nutriente e rinfrescante.

Fino alla metà del XIX° non c’era differenza tra uva da tavola e uva da vino.

Nel 1887 il governo italiano, proprio per valorizzare e legalizzare la specificità dell’uva italica mise dei paletti e specificò la produzione dell’uva da tavola e l’uva da vino nella “Nuova rassegna di viticoltura della Regia Scuola di Conegliano”, vista anche la concorrenza straniera, dove veniva auspicato che “concorsi banditi dal Ministero dell’agricoltura, per l’uva da tavola, facciano conoscere cosa possediamo e le nostre potenzialità”.

Nel nostro paese, fra i primi nel mondo, dopo l’unità d’Italia si cominciano a distinguere le uve da vino rispetto a quelle da mensa. Ma è dall’antichità che l’uva viene rappresentata come status symbol. Nelle civiltà egizie e greche i grappoli di uva vengono usate come corone per ninfe, dei ed eroi , soprattutto nella mitologia greca.

Presente sempre sulle tavole aristocratiche ha ottenuto un posto da privilegio nelle ispirazioni di artisti e pittori in tutti i secoli. Nera o bianca la troviamo rappresentata nelle tele e sui muri, nei libri e papiri.

A volte si porta dietro il sospetto che, l’uva, nell’antichità, fosse considerata quasi come una piacevole droga leggera, la troviamo come frutto del piacere sui banchetti di nobili e principi , in ricette afrodisiache dove nettare e ambrosia erano in buona parte composti da succo d’uva.

Anche per questo Polifemo si entusiasma del dono di Ulisse e viene ingannato.

Se poi vogliamo retrodatare ancora di più il piacere che l’uva riusciva a dare attraverso i suoi frutti, è d’obbligo citare la grande “cassa” che si prese Noè alla fine del diluvio universale, oppure che il vino, derivato dell’uva, rappresenta niente meno che il sangue di Cristo.

E che dire del culto di Dioniso seguito da greci e romani, simbolo dell’esuberanza, della passione, del piacere e del disordine, contrapposto alla razionalità, all’equilibrio e al dominio dei sentimenti del mondo apollineo.

Nel Rinascimento Lorenzo de Medici (1449- 1492) scrive il famoso “Trionfo di Bacco e Arianna” e il Boccaccio distingue il vino buono dall’ acqua dell’Arno.

L’uva da tavola inizia ad affermarsi come tale dopo la prima guerra mondiale, va alla ricerca del caldo sole del sud per maturare e a diventare economia del meridione.

Oggi, a distanza di settant’anni, il nostro paese è diventato il maggior produttore mondiale di uva da tavola Cosi l’uva da tavola acquista un posto di rilievo nell’economia del Mezzogiorno, sfruttando una risorsa , il sole, che madre terra ci dona gratuitamente così da elevare la qualità di un frutto che insieme agli acini porta una storia che viene da tanto lontano, diventando simbolo di bellezza e di trasgressione.

Con la sua cromaticità ha rallegrato a volte anche fame e miseria portando noi, a volte immemori discendenti, a gustarla sempre più per piacere e sempre meno per fame.

Pillole Le varietà Anche i vari tipi di uve da tavola, fin dalla fine dell’800, hanno subito l’evoluzione del miglioramento genetico, sia per affinare la qualità degli acini sia per un problema di resistenza a due grandi parassiti della vite: la Peronospora e la Filossera, che causarono la distruzione di quasi tutte le varietà da sempre coltivate in Europa.

Perché fa bene alla salute Le principali caratteristiche di questo frutto sono la sua alta digeribilità e le sue proprietà terapeutiche: svolge un’azione lassativa, depurativa e diuretica, favorisce la digestione, contribuisce a ridurre il livello del colesterolo “cattivo” e ad alzare quello “buono”, elimina l’acido urico, è ricco di antiossidanti e la presenza di flavonoidi gli conferisce spiccate proprietà antitumorali. Il succo d’uva, bevuto rigorosamente fresco (si ossida velocemente) è utile anche per digerire. Consigli per il consumo I grappoli vengono colti quando l’uva è matura e dolce, per cui, al momento dell’acquisto, basta verificare che gli acini siano ben attaccati al raspo. L’uva è da conservare in frigo fino al momento del consumo, occorre però lavarla molto bene sotto l’acqua corrente prima di mangiarla.

Ricette
SUCCO D’UVA
Con l’uva si può ottenere un buon succo analcolico .

Ingredienti:

 uva nera e matura, possibilmente dolce e profumata

 succo di 1 limone

 zucchero circa 100gr/litro

Preparazione: Prendete dei grappoli d’uva nera matura, e mettere gli acini in un colino dove vanno lavati bene sotto acqua corrente. In una pentola, versate gli acini e coprite per metà con l’acqua ,aggiungete il succo di limone, e cuocete a fuoco moderato a fiamma non troppo alta per evitare che troppa acqua evapori , mettere un coperchio facendo attenzione che non straripi tutto..

Per i primi quindici minuti bisogna rimestare frequentemente con un cucchiaio di legno, schiacciando anche un po’ gli acini per lasciare meglio uscire il succo.

Dopo circa mezz’ora, quando l’acino è completamente disfatto e la pentola si è riempita di succo, spegnere e passare il tutto con un passaverdura o con un colino a maglie strette o in un telo di cotone, schiacciando bene gli acini per raccogliere più succo possibile .

Se nel frattempo il succo si raffredda, scaldarlo e imbottigliare caldo, oppure imbottigliare e sterilizzare in una pentola con acqua come si fa con le marmellate. Il succo d’uva è ottimo per accompagnare le castagne arrosto .

FILETTO ALL’UVA
Ingredienti

 1 filetto di maiale di circa 600 g

 100 g di uva nera

 100 g di uva bianca

 100 g di uva red

 Semi di papavero

 2 cucchiai di olio extravergine di oliva

 sale

 pepe nero in grani

Preparazione Lavate ben l’uva da tavola, quindi con un coltellino togliete la pellicina e dividete gli acini a metà togliendo i semini. Lavate il filetto, asciugatelo tamponandolo con carta assorbente da cucina e tagliatelo a medaglioni; salateli e cospargeteli con i semi di papavero. Scaldate l’olio in un tegame antiaderente e fatevi rosolare la carne a fuoco vivo su entrambi i lati. Abbassate la fiamma e aggiungete gli acini spelati . fate cuocere per altri 10 minuti con chicchi di uva . Regolate di sale e profumate con una abbondante macinata di pepe, quindi spegnete il fuoco. Suddividete il filetto di maiale nei piatti individuali, completate ogni porzione con qualche cucchiaio di frutta cotta e servite in tavola ben caldo.

CROSTATA D’UVA
Ingredienti

 400 g di pasta frolla

 400 g di crema pasticciera

 1 piccolo grappolo di uva bianca

 1 piccolo grappolo di uva Moscato

 1 piccolo grappolo di uva nera

 burro per lo stampo

 farina per lo stampo

Preparazione

scaldate il forno a 180 °C. Imburrate e infarinate una pirofila di terracotta tonda del diametro di 20-22 cm. Stendete la pasta frolla e foderatevi il fondo della pirofila; bucherellate la pasta con i rebbi di una forchetta, copritela con un foglio di alluminio e riempite di fagioli secchi. Infornate a 180 °C per circa 35 minuti, quindi eliminate alluminio e fagioli e lasciate raffreddare.

Nel frattempo staccate delicatamente gli acini di uva dai grappoli e lasciateli a bagno in acqua fredda per una decina di minuti; scolateli e asciugateli tamponando con un canovaccio pulito. Servendovi di un coltello affilato, tagliate gli acini a metà nel senso della lunghezza. Coprite la base di pasta frolla con la crema pasticciera e, partendo dal centro, disponetevi sopra, a cerchi concentrici, gli acini con la polpa rivolta verso l’alto, in modo da alternare i tre colori dell’uva. Servite in tavola

Federico Valicenti

 

Ph : Pixabay senza royalty

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