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Politica

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Cultura e società

Quando la «cura» diventa un’etica del presente e del futuro
Quando la «cura» diventa un’etica del presente e del futuro

Apostolos Apostolou

 

«Ogni vita è una messa in scena ed un gioco.O impari a giocare abbandonando la sapienza, o sopportane le pene».(σκηνὴ πᾶς ὁ βίος καὶ παίγνιον· ἢ μάθε παίζειν τὴν σπουδὴν μεταθείς, ἢ φέρε τὰς ὀδύνας.) Pallada.

Uno dei più rilevanti paradigmi teorici del pensiero filosofico era l’etica della “Cura”. L’enunciato, la struttura d’essere dell’esserci è “Cura”, è una fenomenologia, con prescientifica auto interpretazione. L’interpretazione dell’esserci sul fenomeno della “Cura” non discende da un determinato punto di vista filosofico, ma si propone semplicemente all’analisi delle cose. Niente è appioppato all’esserci. Alle cose, ma tutto è da esse creato. L’esserci stesso è essente auto-interpretantesi ed esprimentesi. A Sant’Agostino, ai fondamenti ontologici della sua antropologia risale l’ispirazione del concetto della “Cura”, che a partire dal 1918, e ha svolto un ruolo determinante nell’ indagine fenomenologica di Heidegger. L’auto interpretazione dell’esserci che si considera come “Cura” viene ravvisata un antica favola di Igino. (Gaio Giulio Igino (latino: Gaius Iulius Iginus; Spagna, 64 a.C. circa – 17 d.C. circa) è stato uno scrittore e bibliotecario dell’Impero romano. «La «Cura», mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La «Cura» lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la «Cura» pretese imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la «Cura» e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possiede la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra).» [1]

Il comprendere significa avere o essere la possibilità di qualcosa. Ma risulta per la “Cura” che l’ esserci stesso sia possibilità. Il fenomeno della scoperta “si mostra primariamente nella “Cura”, che non essa è caratterizzata. Se comprendere è un modo di essere a qualcosa, al mondo, determinato di esecuzione – l’ interpretazione – è determinazione dal modo d’ essere dell’ essere. Ossia qui della “Cura”. Ogni interpretazione, (secondo Heidegger), come rivolgersi a qualcosa come qualcosa “interpreta in un essere – già- con”, ossia con ciò su cui verterà il discorso. Ciò su cui verte il discorso per una primaria precomprensione è sempre già scoperto in qualche senso. Anche qui esiste la potenza della “Cura”, come nell’anticipazione (Vorgriff) secondo Heidegger. L’anticipazione è appunto questo tracciato che appartiene alla struttura dell’interpretazione. Cosi tra interpretazione, comprensione ed esserci con la “Cura” secondo Heidegger, appare qui stabilirsi una stretta connessione che spesso appare perfino fusione. La “Cura” è la sintesi dell’“essere- con – altro, essere – con mondo”.

Nella filosofia greca antica la “Cura” si comprende come legame di finalità: mi occupo di me per potermi occupare degli altri. Per esempio possiamo vedere in Platone come Alcibiade deve occuparsi di sé per potersi occupare degli altri. Il sé di cui ora ci si preoccupa non è un elemento di transizione verso qualcos’altro (città o altri), ma lo scopo unico è la cura di sé. E come scrive Luigina Mortari, (vedi il libro Conoscere se stessi per aver cura di sé) «Quando ci si trova a pensare il proprio essere si scopre che «è un essere inconsistenti», nel senso che la condizione ontologica è quella per la quale ad ogni istante ci si trova esposti al nulla1. Ma nello stesso tempo in cui ci si scopre mancanti d’essere, ci si trova anche chiamati alla responsabilità di dare forma al proprio essere possibile così da vivere una vita buona. Si nasce dunque gravati da un compito che altri viventi non hanno: quello di dare forma al proprio tempo, ossia di disegnare di senso i sentieri dell’esistere. Si tratta di imparare ad aver cura dell’esistenza; detto in altre parole di imparare l’arte di esistere, quella sapienza delle cose umane di cui parla Socrate (Platone, Apologia di Socrate, 20d.)».

Leggiamo nella filosofia platonica come sostiene Francesca Caputo «La cura pedagogica come relazione d’ aiuto» “…dunque, quando si migliora qualcosa…è quello prendersene giusta cura?” (Platone Alcibiabe I 128b 8-9). É Alc. I 128b5-9, scelto qui quale esergo, a confermare che ci si «prende giusta cura» (orthos epimeleisthai) di qualcosa, quando – come prescritto nell’Apologia per l’anima – «lo si renda migliore» (hotan tis ti beltio poiei): “migliore” allude a sua volta alla piena attualizzazione del-le potenzialità naturali, esattamente nell’ottica, dalla parte del curato, dell’autotrascendimento ed in quella, dalla parte del curante, dell’odierna care.
— Dunque, colui che ci ordina di conoscere se stesso ci ordina di conoscere l’anima.
— Così pare.
— E colui che conosce qualcuna delle parti del suo corpo conosce le cose che sono sue ( ta autou ), ma non conosce se stesso ( all’ouch hautòn ) Platone, Alcibiade I,130 6-10.

L’epimeleia heautou «rappresenta anche una certa forma di attenzione, di sguardo. Curarsi di se stessi implica infatti che si converta il proprio sguardo, e che lo si faccia convergere dall’esterno verso… stavo per dire l’‟interno”. Ma lasciamo da parte tale termine (che, ammetterete, comporta un bel po’ di problemi), per dire semplicemente che è necessario convertire il proprio sguardo distogliendolo dall’esterno, dagli altri, dal mondo, e così via, per farlo convergere verso ‟se stessi”. La cura di sé implica un certo modo di vigilare intorno a quel che si pensa e a quel che accade nel pensiero. Vi è infatti affinità della parola epimeleia con meletē, che significa al contempo esercizio e meditazione; ( Vedi Gabriele De Retis Un nuovo punto di partenza teorico: la cura di sé)»

Da qui comincia la filosofia foucaultiana per la «Cura in sé» M, Foucault, sostiene che la Cura di sé, è il governo del desiderio, e insieme sono le strategie idonee per guadagnare una piena autonomia, per cercare il divenire, per quel che si può liberi, per istituire giuste e riuscite relazioni con gli altri.

Come scrive Gabriele De Retis, «Foucault si chiede come sia stato possibile che una nozione così importante per il mondo antico sia stata trascurata dalla filosofia quando essa si è apprestata a ricostruire la sua storia. C’è sicuramente qualcosa nel principio della cura di sé che appare come perturbante. Sicuramente ha giocato il fatto che tutte le formule che ne sono derivate suonano come affermazione eccessiva di sé o sfiducia nella morale collettiva. L’etica generale del non-egoismo, che le regole debbono guidare l’azione si fondino su austere pratiche di vita, in antico sicuramente riposava sul principio della cura di sé. La ragione essenziale, tuttavia, dell’abbandono di questo principio andrà ricercato in quello che Foucault chiama ‘momento cartesiano’, cioè attraverso la riqualificazione del gnōti seauton e la squalificazione dell’ epimeleia heautou. La prima operazione è fortemente affermata nelle Meditazioni, dove il principio di evidenza, da cui parte ogni scelta filosofica, si esprime come forma di coscienza, senza che sia possibile alcun dubbio. Inoltre, collocando il principio di evidenza all’origine dell’accesso all’essere nella forma dell’indubitabilità dell’esistenza personale, Cartesio fa del “conosci te stesso” uno degli accessi fondamentali alla verità. Anche se la distanza è immensa tra il gnōti seauton socratico e il procedimento cartesiano, il principio socratico viene assunto all’interno del procedimento filosofico anche dopo il XVII secolo. Per questa via, il principio dell’epimeleia heautou è stato progressivamente svalutato e dimenticato….Il secondo carattere della spiritualità è rappresentato dal fatto che la conversione, la trasformazione del soggetto può avvenire secondo differenti forme, nella forma di un movimento che sottrae il soggetto al suo statuto e alla sua condizione attuale (si tratta del movimento ascensionale dell’eros), nella forma di un lavoro di sé su di sé (attraverso il lungo sforzo dell’ascesi).»

E secondo Pierre Hando la «Cura in sé», della cultura greca antica è più una fantasia che una realtà e insieme è una conquista non è un dono, e anche un’aspirazione all’infinito.

La «Cura in sé» in Aristotele prende un’altra forma. E’ ciò che Aristotele chiama «vivere bene», «vita buona», «vera vita». La vita buona dev’ essere nominata per prima perché è l’oggetto stesso della prospettiva etica. Quale che sia l’immagine che ciascuno si fa di una vita compiuta, questo coronamento è il fine ultimo della sua azione. E’ questo il momento di ricordare la distinzione che Aristotele tra il bene, quale è perso di mira dall’ uomo e il Bene platonico. La distinzione tra «Φιλείν» (amato) e «Φιλείσθαι» (essere amato). [2]

Nell’etica aristotelica non si può far questione che del bene per noi. Questo esser relativo a noi non impedisce che non sia contenuto in alcun bene particolare. Esso è piuttosto, ciò che manca a tutti i beni. Tutta l’etica presuppone quest’uso non saturabile del predicato «buono». Con Aristotele possiamo capire anche la prima distinzione tra etica e morale. L’uno viene dal greco, l’altro viene dal latino ed entrambi rinviano all’idea intuitiva di costumi, con la duplice connotazione che cercheremo di scomporre.

Di ciò che è stimato buono e di ciò che s’impone come obbligatorio. Qui abbiamo secondo Aristotele l’obbligatorio della libertà ridotta, cosi come la vede con un’analisi il filosofo e psicoanalista S. Zizek. Cioè l’analisi del pluvalore quella del “plus-godere”, il meccanismo per cui “più bevi coca cola più hai sete, più profitto ottieni più ne vuoi, più compri più devi spendere”.

Secondo Aristotele esiste la distinzione fra prospettiva e norma si riconoscerà facilmente l’opporsi di due eredità. Un’eredità aristotelica, in cui l’etica è caratterizzata dalla sua prospettiva teleologica, e un’eredità kantiana, in cui la morale è definita dal carattere di obbligazione della norma, dunque da un punto di vista deontologico. Nel pensiero di Aristotele esiste la differenza tra «φιλείν» cioè l’energia, e «φιλείσθαι» cioè la passiva situazione. La «Cura in sé», secondo Aristotele è l’uscita dalle paure «τους φόβους», e il contenuto delle ansie «τας μερίμνας». Mentre secondo Eraclito la “Cura” è il concetto di partecipazione. [3]

Aristotele stabilisce tra la phronesis, e il paronimo, legame che assume senso soltanto se l’uomo dal giudizio saggio determina nello stesso tempo, la regola e il caso, cogliendo la situazione nella sua piena singolarità. Aristotele non esita nell’accostare la singolarità della scelta secondo la phronesis a ciò che percezione «aisthesis» è nella dimensione teoretica.

La “Cura di sé” finalmente che cosa è? Un’etica? Una pedagogia? Un’arte della vita? Un’ingiunzione di diventare ciò che si è? Francesca Caputo scrive: «Pedagogicamente parlando, la cura documenta, invece, una semantica molto più articolata e ricca che ha probabilmente origini pre-ontologiche e che la collocano, quindi, nel fatto che l’essere umano non è solo nel mondo, ma di quest’ultimo è parte e partecipe consapevole. Questo senso semantico pre-ontologico è da recuperare, come le analisi abbozzate qui documentano, in quanto la cura non è solo sapere su se stessi, ma la conditio sine qua non dell’abitabilità nell’umanità del mondo. Se l’umanità dell’umano non è solo conoscenza di sé e del mondo, ma anche azione e interazione dell’uomo con se stesso e col mondo, la cura è allora quell’elemento fondante che guida e costituisce i rapporti umanamente possibili anche e soprattutto nella loro dimensione normativo-interrelazionale. La cura diventa così non solo conoscenza, ma anche preoccupazione per l’altro. Quell’altro che sarà quell’irriducibile che è e che la cura aiuta a essere. Quell’irriducibile che sono Io e che è ogni Altro, per cui il prendersi cura è atto continuo e reciproco d’interrelazione e non di esclusione. In definitiva, la cura pedagogica come relazione d’aiuto non è un percorso riservato a una categoria particolare di educandi, piuttosto il sostrato comune di ogni educazione. Ogni educando si avvale di questo sostrato e ogni educazione si struttura all’interno di questa semantica della cura come rapporto vissuto, rapporto da sperimentare, rapporto all’interno del quale l’educando sperimenta se stesso nella relazione con l’altro o nella cura reciproca che poi non è altro che il fine di ogni educazione: essere se stessi nell’armonia con l’Altro in un rapporto di corresponsabilità e di amore reciproco per noi stessi e il mondo di cui siamo parte e a cui dobbiamo la nostra possibilità di esistenza».

Nella cultura greca antica la “Cura” è una categoria estetica (aistetike da aistesis) che diventa una dottrina della conoscenza sensibile, mentre nella cultura Occidentale la “Cura” diventa, un’estrema riserva del proprio della cosa, un supplemento d’anima, e anche un’immanenza senza immediatezza. Perché le cose secondo Nietzsche non divengono oggetto di una rappresentazione per un soggetto, nè suscettibili di una comparabilità.

 

Punti:
[1] Martin Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1976, p.247
[2] Το μεν γάρ φιλείν, ενέργεια τις ηδονής και αγαθόν, από δε του φιλείσθαι ουδεμία τω φιλουμένω ενέργεια γίνεται.
[3]«διὸ καθ᾿ ὅ τι ἃν αὐτοῦ τῆς μνήμης κοινωνήσωμεν, ἀληθεύομεν, ἃ δ᾿ ἃν ἰδιάσωμεν, ψευδόμεθα» (Testimonia, ἀπόσπ. 16, 37-38).

Apostolos Apostolou
Scrittore e Professore di Filosofia

Eppur riusciremo a vedere i potenti passare e il giornalismo restare ..
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La fine dell’ arte
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Ambiente

Made in Italy: la cucina che mette tutti a dieta… di invidia!
Made in Italy: la cucina che mette tutti a dieta… di invidia!

Di Giuseppe Arnó

Diciamocelo chiaro e tondo: quando si parla di cibo, l’Italia gioca in un campionato tutto suo. Dalla carbonara all’ossobuco, i nostri piatti fanno tremare le tavole di New York e Tokyo, lasciando tutti a bocca aperta (e subito dopo, a bocca piena). Il segreto? Un mix imbattibile di tradizione, ingredienti di qualità e quella passione che rende ogni forchettata poesia pura.
Per noi italiani, il cibo non è solo nutrimento: è rito, arte, festa. Da Nord a Sud, si mangia come se fosse sempre l’ultima cena, e sì, c’è chi ancora si fa il segno della croce prima di assaggiare.

Ogni piatto racconta storie, coccola l’anima, tiene viva la memoria. Ma attenzione: guai a fare errori. Amatriciana con la panna? Squalifica immediata. Pizza con l’ananas? Esorcismo garantito.
E poi c’è quel nostro fiuto da detective della qualità. Siamo i Sherlock Holmes del supermercato, capaci di analizzare ogni etichetta e interrogare il fruttivendolo sulle origini delle melanzane. Perché per noi il cibo non è solo cibo: è una questione di principio.
Ma il vero ingrediente segreto non si trova in una dispensa. È la compagnia. Mangiare da soli, in Italia, è quasi un peccato. Ce lo dicono anche gli scienziati: condividere un pasto rende felici. Insomma, il miglior risotto allo zafferano non vale nulla se non hai qualcuno accanto a cui dire: “Eh sì, l’ho fatto io!”.

E il mondo lo sa bene. Dal 2014 al 2023, le esportazioni del nostro agroalimentare sono cresciute dell’87%, superando i 64 miliardi di euro. Altro che cibo: il Made in Italy è arte, confezionata sottovuoto e amata ovunque.
Le contraddizioni della cucina italiana
Certo, non siamo perfetti. L’Italia è un mix di ordine e caos, tradizione e innovazione. Ed è proprio questa danza tra opposti che rende la nostra cucina unica. Non cuciniamo solo per nutrirci, ma per stupire, emozionare, vivere.
E con il Natale alle porte, la cucina italiana si trasforma in un luna park di dolcezze. Panettoni, torroni, cantucci: l’indice glicemico scrive Cronache di un abuso natalizio. Ma come dicevano i latini, semel in anno licet insanire: una follia all’anno è concessa. Attenti però, perché a gennaio potrebbe arrivare la resa dei conti… e dei pantaloni troppo stretti!

Il lato nascosto del Made in Italy
Fin qui, tutto bello. Ma non possiamo ignorare che, mentre celebriamo il nostro cibo, ci sono italiani per cui anche una pasta al pomodoro è un lusso. Un italiano su otto vive sotto la soglia di povertà. E mentre esportiamo eccellenza, ci sono tavole vuote.
Eppoi, la vera grandezza della cucina italiana non è solo nei suoi piatti stellati, ma nella capacità di rendere straordinario ciò che è semplice: un pezzo di pane, un filo d’olio e un peperoncino possono essere un capolavoro, ma devono essere alla portata di chiunque perché la cucina italiana è un patrimonio di tutti.
Come garantire che lo sia davvero?

Non servono gesti eroici, ma iniziative concrete:

• Combattere lo spreco alimentare. Ogni anno buttiamo tonnellate di cibo. Le food bank e altre iniziative possono fare molto, ma serve la volontà di tutti.
• Educazione alimentare. Anche con pochi soldi si può mangiare sano, ma bisogna sapere come fare.
• Sostenere i piccoli produttori locali. Comprare a chilometro zero aiuta chi lotta contro le grandi multinazionali e fa bene al pianeta.

E a Natale, mentre ci godiamo il nostro torroncino, pensiamo a chi ha meno. Una donazione, un pasto condiviso, anche solo un pensiero possono fare la differenza.

Perché il vero miracolo della cucina italiana non è solo il suo sapore, ma la sua capacità di unire le persone.

Buone feste e buon appetito… per tutti!

Ph : Freepik senza royalty

Dall’Aja viene un monito
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Sette italiani su dieci faranno un viaggio durante le vacanze di Natale 2024, secondo Jetcost
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